Quattro giorni non sono un lasso di tempo utile a lenire le ferite. Da Budapest all’Olimpico il filo di dolore che ha legato migliaia di romanisti non si è spezzato, finendo per convergere nell’unico luogo in grado di curare la delusione. Capace di accarezzarla e prendere per mano tutti quegli occhi spaesati dal mercoledì precedente. Persi nel sogno infranto. L’Olimpico dopo una tragedia sportiva è come quella casa in grado di accoglierti dopo che una parte di te è andata in frantumi. Dopo una delusione sentimentale o una speranza dissoltasi in fumo, lasciando ingenti fantasmi e incubi difficili da sopire.

Nella mia memoria personale, l’impianto di Viale dei Gladiatori, è un posto che negli anni è riuscito a darmi coraggio nei momenti più neri della mia passione calcistica. Quando ancor prima di prendere una penna in mano e sfogarmi con parole e pensieri, l’unica valvola era percorrere il lungo vialone dopo Ponte Duca d’Aosta, superare obelisco e palla e varcare gli ingressi. Certo, per molti oggi è più dura del solito. Per tanti è dura come non lo è mai stato, soprattutto per quelle generazioni che di sconfitte sonore e segnanti forse non ne avevano vissute. E a chi dice che ciò fa bene, rispondo che sarà pur vero ma è sempre meglio rimanere nel dubbio lo sia. Quando Pazzini stuprò ogni velleità scudetto, nel 2010, la settimana dopo ci ritrovammo al Tardini di Parma. Ed era diverso, anche se avvolgente. Era il prologo di una delusione annunciata, ma che conosceva un tempo per esser diradata. Grazie a tre partite finali in cui si tamponò la sofferenza con l’orgoglio e un briciolo di speranza in un passo falso della micidiale Inter del triplete. Oggi si è a pochi giorni di distanza da una finale europea, un unicum ancor più raro rispetto alla Roma in lotta per il titolo. E i “vecchi” diranno che non può esser paragonato a Roma-Liverpool (e quindi al loro successivo Roma-Milan di Coppa Italia). E forse è anche vero considerato il trasporto ancor più liturgico e la mancanza di altri svaghi e passioni al di fuori del calcio in una città e in un’Italia ben diverse da quelle di oggi. Ma l’onda lunga dello schiaffone ricevuto a Budapest ha lasciato comunque un segno netto e ancora irritato.

Nel 1997 Franco Battiato esordiva con “La Cura”, un singolo che ebbe immediato successo, forse perché struggente nella sua dignità, toccante nella sua compostezza e dolce nella sua austerità. Gli oltre sessantamila contro lo Spezia sono oggi un po’ figli di quel brano e in esso si possono immedesimare per oltre novanta minuti, ricercando un sorriso nelle sue note. La Cura di loro stessi e il tappeto disteso verso il futuro, verso nuove sfide e verso il mantenimento di un’unità fondamentale per qualsiasi comunità che ha nell’illogicità e nel tribalismo le sue linee guida.

La partita con i liguri riesce persino a offrire degli spunti calcistici, amarissimi per gli ospiti – costretti allo spareggio contro il Verona per non retrocedere – minimamente soddisfacenti per la Roma, che vincendo 2-1 in rimonta conquista l’ultimo posto disponibile per la prossima Europa League. Ma oltre al responso del campo, oggi sono gli spalti a parlare. Tanti, tantissimi, gli striscioni per Mourinho, contro l’arbitro Taylor e di ringraziamento alla squadra, per un percorso che comunque ha permesso alla gente di sognare. Perché – scusate se è poco – un sogno, anche se con un finale catastrofico, viene ricordato vita natural durante. Mentre una piattezza dell’essere, una stagione senza sussulti e che coinvolge solo gli interessi economici del club, passa agli annali come una delle tante. Il dolore è solo l’altra faccia della gioia. E ambedue le sensazioni smuovono l’anima e si scolpiscono nel cuore.

Se una sconfitta non va mai esaltata o bypassata facendo finta non sia esistita, è d’uopo che chi ne è vittima trovi la forza di reagire superando lo scoglio del lutto. E questo vale dagli ultras all’ultimo dei tifosi seduto davanti alla televisione per l’unica volta in questa stagione. La Cura, quindi, passa da qua. Dal tifo di questa serata, che come un diesel si accende e conquista potenza lentamente, nel tentativo di scrollarsi di dosso le scorie. Nel voler rimettere insieme i cocci, anche facendo leva su una diffusa sensazione di esser tornati invisi al resto d’Italia e del “sistema”. Cosa che, sono sincero, da una parte la vedo sempre come una retorica perdurante nel cuore e nella mente di ogni tifoso, ma dall’altra funge evidentemente da collante. E fortifica. E poi, già ho avuto modo di dirlo, io credo che ogni supporter non voglia recitare la parte del “simpatico” di turno, e questo porta giocoforza all’innalzamento del livello di “ruvidezza” e refrattarietà.

Oggi c’è spazio, ovviamente, anche per Antonio Del Falchi. Il 4 giugno di ventiquattro anni fa il ragazzo di Torre Maura perdeva la vita a margine di un tristemente celebre Milan-Roma e come ogni anno viene celebrato dalla propria gente con striscioni e cori. Oltre ai murales che ormai da anni campeggiano nei pressi della sua abitazione e che di volta in volta vengono ritoccati e restaurati.

L’ultimo atto di questa stagione 2022/2023 scivola via così, con torce e fumogeni accesi in ogni settore dello stadio e tutti i presenti in piedi a battere le mani a una squadra che non ha vinto nulla – anzi, in campionato ha conquistato a stento un sesto posto – ma ha saputo emozionare. Trasversalmente, tutti. Perché magari, come si dice, questo sarà anche un “ariconzolasse co’ l’ajetto”, come si dice da queste parti, ma è un dato di fatto. E allora si alzino le note di quella canzone e si suggelli questa stagione per certi versi storica. Si sfruttino le parole cantate da Battiato e senza esser troppo mielosi si faccia un passo avanti. Nella consapevolezza che il tifo della Roma deve continuare ad avere come motore la Curva Sud. Uno spazio aggregativo che con tutti i suoi limiti e le sue contraddizioni può e deve esser fulcro per le nuove generazioni, luogo di passaggio e trasmissione della cultura da stadio e della fede per la Dea Eupalla che all’ombra del Colosseo rimane una delle poche cose pure e genuine. La notte cala su Roma in questa serata di inizio giugno, l’odore del fiume – in contrasto con il caldo umido – è forte e perentorio. Scorre e porta via rami, sporcizia e pure qualche dubbio. Basta guardarlo per assimilarne l’ottimismo di chi si rigenera metro dopo metro, con il fine ultimo di gettarsi al mare. Traguardo che per ogni tifoso deve rappresentare l’allegoria della sua importanza per portare la propria squadra ai traguardi più alti. Mettendola ovviamente davanti a tutti quando si è su quelle gradinate.

“Ti porterò soprattutto il silenzio e la pazienza
Percorreremo assieme le vie che portano all’essenza…”
.

Simone Meloni