Il ragazzo pressoché adolescente davanti a me osserva attonito l’ultimo calcio di rigore del Siviglia, scoppiando in un pianto disperato quando il pallone entra in rete assegnando agli spagnoli la settima Europa League della loro storia. Le lacrime scendono a dirotto tra le braccia del padre che, forse più sconsolato di lui, lo abbraccia senza proferire parola. “That’s football” dirà Matic qualche minuto più tardi, durante la premiazione, a un affranto Dybala. Che proprio come quel ragazzo adolescente non riesce a bloccare il pianto. Vero, è il calcio. E tutti sappiamo come funziona. Tutti, senza dirlo, ne abbiamo accettato dinamiche folli, surreali e per certi versi paranormali. Tutti ne abbiamo accettato la carica di adrenalina e gioia che è in grado di restituirti in caso di successo. Ma anche la crudeltà della sconfitta. Parte integrante dello spettacolo. Parte autentica di un cinema che a questi livelli tentano spesso di far diventare Teatro dell’Opera. Con tutto il rispetto per l’Opera, i suoi artisti e la sua storia.

Budapest è il sogno infranto. L’incubo che per certi versi si ripercuote sulle generazioni di oggi e che come un fantasma va a svegliare quelle di ieri. Ma Budapest è anche la fine di un cammino che ha permesso di sognare, che ha instillato nella mente e nel cuore di migliaia di romanisti tanta energia, positività e passione. Per un giorno la Capitale magiara è diventata il centro del desiderio di un popolo, che l’ha pacificamente invasa e che camminando per le sue strade non ha mai creduto di avere il trofeo in tasca, ma sicuramente l’ha sperato. E ne ha condiviso la bramosia con ogni cosa l’abbia circondata. Anche di fronte al sorriso tranquillo dei tifosi spagnoli, che li vedevi camminare come nulla fosse. Forse perché per loro quello della finale è divenuto un rito abituale, poco più importante del nostro pranzo della domenica. Forse perché non hanno scheletri pronti a uscire dall’armadio.

Eppure, senza presunzione, io colgo sempre un modo diverso di vivere e percepire il calcio oltre i nostri confini. Difficilmente nel Vecchio Continente (forse in Inghilterra, se vogliamo parlare solo ed esclusivamente di passione e attaccamento ancestrale ai propri colori) carpisco quel pathos – spesso fatale, parliamoci chiaro – con il quale tante tifoserie italiane vivono appuntamenti cruciali della loro storia. E so bene di cosa parlo, perché prima di mettermi dietro un computer, una camera o un foglio di carta, sono stato sugli spalti. E ho avvertito quella paralisi che non ti fa cantare, parlare e respirare finché i 90 minuti non sono passati.

Macchine, treni, pullman, aerei. C’è chi addirittura è partito da altri continenti, facendo scali improbabili, pur di esserci. E sì, è vero, non è il numero che fa la qualità di una tifoseria. Ma in questo caso il numero e le modalità di viaggio ne descrivono senza dubbio il cuore. E quel filo conduttore che tiene legate persone ormai lontane fisicamente a Roma. Ancor più della città stessa. Una città che magari hanno abbandonato per le poche opportunità che ti dà, ma che portano ogni giorno con sé grazie ai colori tifati. In questi casi è facile cadere nella stucchevole retorica, ma ci sono storie di vita che vanno menzionate. Almeno per ricordarci ancora una volta come il calcio sia l’ultimo avamposto di unione, oltre qualsiasi barriera sociale, politica, di ceto e d’età.

Sì, Budapest è il sogno infranto. Budapest sono le lacrime dei ragazzi e dei giocatori. I tifosi mortificati che non riescono ad abbandonare il proprio posto e un altro pezzo di Roma, all’Olimpico, che non si dà altrettanto pace e strugge la propria anima di fronte al manto verde. Senza calciatori ma con diversi maxi schermi, che qualcuno aveva sperato essere profetici, come un anno prima. In occasione della finale di Conference. Scaramanzia: un elemento che la maggior parte di noi aborrisce nella vita di tutti giorni, salvo rispolverarla alla grande in ambito calcistico. Un calarsi in abiti pagani, primordiali, che fotografa bene il significato della parola “tifo”. Sarebbe bello dire che nessuno è uscito sconfitto – né dalla Puskas Arena né dai gradoni dell’impianto capitolino -, ma così ovviamente non è. Perché anche il dolore più grande va elaborato e preso per il collo. Ma riconosciuto e rispettato. Di sicuro, come recitavano dei vecchi striscioni anni ’70 e ’80: la fede non muore. E con essa non muoiono il turbinio di emozioni che anche la notte più buia ha comunque concesso. In quelle emozioni si sono abbracciati tutti. Da Roma a Budapest, dandosi un ideale appuntamento a Roma-Spezia. Dov’è la novità? Tanta di questa gente c’era a Roma-Milan, una settimana dopo la sconfitta delle sconfitte, quella contro il Liverpool, e c’era anche all’addio al calcio di Bruno Conti. Il giorno dopo la Coppa UEFA persa con l’Inter. Tanti di loro ci saranno e molte nuove generazioni faranno lo stesso, anche nello spin-off di questa tragedia sportiva. Perché il romanismo è anche questo. Muovere circa centomila persone tra due città, farlo in maniera passionale e selvaggia, e non raccogliere nulla. Neanche l’onore delle armi. Perché quando un trofeo lo perdi, ci fai poco anche con questo. A lenire può essere solo l’orgoglio, che fa da schermo a qualsiasi agente malevolo.

A ognuno rimarrà legato un aneddoto. A ognuno una storia da tramandare ai posteri. Rimarrà la sconfitta, il dolore, la delusione. Ma si diraderanno leggermente e andranno a fondersi con i ricordi più belli. Perché l’approccio fideistico prima o poi ti fa passare oltre, ti fa divenire più grande e resistente di fronte alla caduta. E ti fa essere anche solidale con ogni gesto a difesa della tua bandiera. Fosse pure una sedia che vola all’interno di uno scalo aeroportuale verso l’arbitro della gara. Perché se qualcuno l’ha interpretata come inciviltà, se i pronti difensori della morale e dell’ordine costituito si sono affrettati a bollare l’accaduto e schierarsi come sempre dalla parte di chi ha ragione a prescindere, io dall’altra ci ho visto l’ultimo tentativo d’amore. Di voler difendere un amore che si credeva defraudato. E attenzione, non voglio parlare di calcio giocato o di arbitri – questi giudizi li lasciamo a chi di dovere – ma di una reazione emotiva che seppur esagerata ha fotografato bene lo stato d’animo di chi era là. Perché c’era tutto di Roma. C’era Via del Corso, come Casal Bertone, c’era Ponte Milvio come San Giovanni, c’era Cinecittà come c’era Corviale. C’erano anche Prati e i Parioli, che per una serata hanno svestito i loro signorili panni, indossando la sciarpa. E quando in un contesto simile c’è di tutto e questo tutto marcia verso una sola direzione, più che stigmatizzare una sedia con una mira precaria, andrebbe elogiata l’immortale passione trasversale. E la passione è anche esagerazione, fatevene una ragione!

Tornando al differente approccio di cui sopra, il giorno prima del match è significativo osservare la maggior parte degli spagnoli in giro per la città, mentre i pochi romanisti – il grosso arriverà la mattina seguente – fiondarsi attorno allo stadio. Quasi nel voler esorcizzare l’attesa, quasi nel voler chiedere di entrare prima e dormire sugli spalti. In maniera da assimilare la tensione e sentirsi più a proprio agio. Li capisco, ma io ho ovviato a questa necessita ben dodici anni fa. Quando la Puskas Arena era conosciuta come Népstadion e le sue tribune non erano ancora avveniristiche come quelle odierne, ma totalmente uniformi ai classici stadi dell’Est Europa. Io dodici anni fa qua ci sono stato in occasione di un’amichevole tra il Vasas e la Roma, in un torrido agosto dove a presenziare furono davvero in pochi. Anche considerando che si trattava del centenario del club magiaro. Io me lo ricordo quel viaggio “della speranza”. Dal treno fino a Trieste al sudicio pullman fino a Budapest. E là, per la prima volta, questa magnifica città davanti ai miei occhi. Diversa dal centro turistico che lentamente è diventato. Ancor più sulle sue, ancor più ostica per certi versi. Ricordo i tram e ricordo la voce del compianto Giorgetto risuonare forte e chiaro su uno di essi. Il segnale che qualche altro malato da Roma era partito, per un match totalmente inutile e insignificante. La base di ciò che si fa nella vita e delle proprie attitudini la vedi anche da questi brevi anfratti.

Oggi è molto differente. Oggi è un percorso che parte da lontano e che arriva al culmine di un’annata particolare, dove determinate tematiche ultras hanno toccato da vicino la Sud ma dove il pubblico giallorosso ha confermato il suo fiume di passione in casa e in trasferta. E ha seguito incredulo il secondo cammino europeo consecutivo che ha portato all’ultima tappa della kermesse. Un qualcosa di impensabile per una piazza non certo abituata a questi palcoscenici, difficilmente avvezza ad arrivare fino in fondo e profondamente ostaggio dei propri sogni. Delle proprie ansie. Delle proprie paure. Il totem di Mourinho, che è risultato sicuramente cruciale sia nel cammino che nello scrollarsi di dosso parecchie zavorre. E sebbene io non sia una persona che crede nei miti, benché per me rimangano validi e immortali solo il simbolo, il vessillo e i colori, non posso non riconoscere nell’avvento del portoghese un passaggio chiave nella mentalità del club e nell’aizzare una folla che forse di questo ha bisogno. Polemiche sugli arbitri a parte, l’aver convogliato rabbia e fervore, l’aver fatto tornare la Roma una squadra poco simpatica e invisa a molti, ha senza dubbio riattivato tutta una serie di istinti che l’aspetto sportivo aveva lentamente sopito all’ombra del Colosseo. E so bene che nella nostra mentalità dev’esser il tifoso a trascinare la squadra, non viceversa. Ma voltando per una volta le spalle a tanti bei discorsi, vogliamo negare che i risultati – ma soprattutto la consapevolezza di poterli raggiungere, il percorso, a prescindere da come finisca – siano fondamentali per fomentare un ambiente? Se è così, allora il tifo per il calcio è ben diverso da come lo concepisco.

Entrando più nella fattispecie, volendo parlare di questa finale, c’è sicuramente da dire che oltre alla tifoseria romanista, mette alla prova un’altra curva che nel bene e nel male ha fatto sempre molto parlare di sé in Europa, quella dei Biris Norte. Corsi e ricorsi storici: avevo già avuto modo di vedere gli andalusi impegnati in una finale di Europa League. Più precisamente quella disputata (e ovviamente vinta) contro il Liverpool a Basilea, il 18 maggio 2016. Se a livello di tifo avevano ben figurato, non ne ero rimasto propriamente impressionato dai numeri. A Budapest non so cosa aspettarmi, dato che oltre alle difficoltà nel raggiungere l’Ungheria, il vero e proprio spauracchio è rappresentato dall’accoppiata composta dai tifosi dello Slask Wroclaw più gemellati del Ferencvaros. Sebbene sia ormai quasi inutile ricordarlo, da qualche anno il tifo più radicale del club di Breslavia insegue praticamente ovunque i supporter spagnoli, col fine di vendicarsi per alcuni striscioni persi in casa loro diversi anni fa (con i sivigliani che non si presentarono nella gara di ritorno). Mettiamoci poi che la tendenza politica sinistrorsa dei Biris cozza notevolmente con l’arcinota vena nazionalistica di ungheresi e polacchi, e allora capiamo che per loro i campanelli d’allarme ci sono tutti. Anche perché, giusto per non dimenticare, a queste latitudini esistono anche altre tre tifoserie di ottimo valore come Ujpest, Vasas e Honved-Kispest.

La sera prima del match succede ben poco, anche perché il centro è letteralmente presidiato dalla poco affabile polizia locale. Qualche ora prima della partita, invece, si registrano incidenti proprio tra ultras spagnoli e dello Slask. Trovandomi peraltro nella fan zone sivigliana – per capire che aria tirasse -, proprio in quel momento, vedo arrivare l’intero corteo dei Biris, evidentemente provenienti dalle turbolenze. Circa duecento che marciano in corteo verso il punto di ritrovo, probabilmente per mischiarsi con gli altri tifosi e poi raggiungere lo stadio.

Nessun problema per il contingente romanista che, come detto, ingrossa le proprie fila il giorno della gara. Ovviamente in tanti hanno preferito mettersi in viaggio con un mezzo proprio, potendo modulare i propri orari e non portar via troppi giorni al lavoro. Ufficialmente il dato parla di circa 20.000 biglietti staccati tra le fila capitoline, entrando allo stadio ci si renderà conto che in realtà si tratta quasi del doppio. Come sempre la politica UEFA in fatti di biglietti ha fatto acqua da tutte le parti, favorendo clamorosamente il bagarinaggio. Cerco di spiegarmi meglio: per i romanisti la vendita è stata divisa in due parti: la prima riservata agli abbonati, la seconda libera a tutti (e già qua, essendo online, per molti che volevano specularci è stato facile acquisire ticket). La UEFA, a fronte di una capienza di circa 60.000 spettatori, ha come sempre intascato una grande fetta di tagliandi da dispensare a sponsor, vip e pubblico locale. La stragrande maggioranza degli stessi sono ovviamente finiti in mani losche e rivenduti a prezzi a dir poco maggiorati (un settore dal prezzo minimo di 45 Euro venduto anche a 2.000 Euro), persino fisicamente per le strade e attorno allo stadio. E siccome posso assicurare che questa è la norma durante le finali europee (l’ho visto anche a Tirana e a Praga, qualche giorno dopo per la Conference), mi preme sottolineare al maggiore organo calcistico europeo di quantomeno rivedere le proprie modalità di vendita e favorire chi vuol assistere normalmente a una partita di calcio, senza accendere un mutuo o passare per giri poco puliti.

La concentrazione di buona parte dello zoccolo duro della Sud proprio di fronte alla Basilica di Santo Stefano richiama l’attenzione della polizia ungherese. Rendőrség hanno scritto sulle loro divise, a testimonianza di quanto questa lingua dal ceppo ungro-finnico sia totalmente diversa dalla nostra. Le modalità, invece, non permettono molta prosa o giri di parole – soprattutto all’unità cinofila, che senza motivi (oppure con un motivo che a me resta incomprensibile essendo detto in ungherese) ti spintona malamente da una parte all’altra se provi a invadere quelli che per loro, inspiegabilmente, sono spazi intoccabili -, quindi meglio non esasperarli troppo. Con il fischio d’inizio ancora distante si parte in corteo alla volta dello stadio, distante quattro chilometri. I boulevard di Budapest vengono momentaneamente bloccati, nonché colorati dal vasto utilizzo della pirotecnica. Qualche momento di tensione quando si passa davanti a un bivacco di tifosi andalusi, vola qualche torcia ma alla fine tutto rientra velocemente, sotto gli occhi inviperiti della polizia locale. Prima di girare per lo stadio si raggiunge Piazza degli Eroi, nota porta d’accesso per uno dei parchi pubblici più belli della città. Al suo interno è stata allestita la fan zone per i tifosi italiani, che tuttavia non ha avuto lo stesso successo riscosso tra gli spagnoli. Mi viene spontaneamente da dire che questo genere di “contenitori” non si confanno molto al nostro modo di vivere il calcio e lo stadio. Peraltro in quest’occasione ha pesato tantissimo il caldo insopportabile che ha insistito sulla zona.

A questo punto, sempre più velocemente, la sagoma della Puskas Arena comincia a stagliarsi di fronte al corteo, che metro dopo metro si mischia alla masnada giallorossa, già intenta a guadagnare gli ingressi. Da lì a poco io sarò costretto a cambiare strada, senza però aver dato l’ultima occhiata alla marea umana che senza particolari controlli si prepara a entrare. Dispiace per qualche burlone iberico che si è affrettato a riprendere col suo smartphone ragazzi intenti a entrare “all’italiana”, così come dispiace se qualcuno anche nel nostro Belpaese – che fino alla prova contraria di queste cose fa ancora cultura da stadio, soprattutto quando un ente superiore toglie deliberatamente i biglietti – abbia ostentato tutta la sua morale puritana. Il fiume umano non lo fermi. E ne servirebbe uno in ogni stadio e in ogni domenica per riconquistare determinate libertà perse!

Vado dritto dove vedo un nugolo di steward inermi. Mostro il mio pass e chiedo una bottiglietta d’acqua per reidratarmi. Poi sono dentro. Da fuori lo stadio ha mantenuto quella sembianza di vecchio casermone sovietico, segno che determinate parti non sono state buttate giù. Al suo interno la storia cambia e benché non nutra una passione sconfinata per gli impianti moderni, va detto che ci troviamo di fronte a una struttura degna di esser utilizzata come stadio nazionale, nonché come luogo dove ospitare finali. Da una parte romanisti, dall’altra sivigliani. Le curve si riempiono lentamente, con la moltitudine di pezze giallorosse che già un’ora prima del match imperversa su buona parte delle tribune. Così come già le prime torce si fanno vedere.

Anni di stadio mi hanno trasmesso un’interpretazione ormai quasi naturale del clima che si respira. E quando le due squadre rientrano negli spogliatoi, dopo il riscaldamento, vedo tutta la differenza tra un pubblico sicuramente caloroso come quello spagnolo, e un altro che mischia tribalismo, selvaticità, passione e sana ignoranza. A Roma ci vivo da trentasei anni e vi potrei dire tranquillamente tutti i tipi di persone che vedo sulle gradinate. E vi assicuro, che oltre a esserci tutti, in questa occasione sembrano tutti aver portato l’aspetto più ruvido e scontroso del romano. Un pubblico che generalmente “non è da finale”. Perché le finali per UEFA e compagnia cantante sono kermesse da lustrini. Non certo luoghi dove il tifoso morderebbe tranquillamente le caviglie agli avversari. Se ne accorgerà anche qualche giocatore del Siviglia, che nella prima frazione farà a più riprese fatica a calciare un angolo o battere una rimessa laterale. Può piacere o meno, si può giudicare provinciale come cosa, ma a me questo calcio da sofisti, fatto di terzi tempi e pacchette sulle spalle, fa alquanto ribrezzo soprattutto per la sua ipocrisia. Quindi a prescindere da quale tifoseria provenga, l’anima battagliera è l’unica che può riportarlo sui suoi binari naturali.

Le squadre entrano in campo, con le due fazioni che esibiscono le relative coreografie. Telone semplice su sponda sivigliana, con il quale gli aficionados andalusi ricordano tutta la loro supremazia in questa competizione. Cartoncini per i romanisti, che vanno a comporre la scritta “Figli della Lupa”. Onestamente non riuscita benissimo, forse si doveva tener conto che le tante persone in possesso del terzo anello avrebbero provato a scendere in massa al primo e al secondo.

La contesa inizia e con essa il tifo dei due contingenti. Primo tempo di spessore da parte dei romanisti, con i gruppi che saggiamente convogliano tutto il filo emozionale dei presenti, creando un ambiente caldo e un bel mix tra tifo canoro e vero e proprio “disturbo”. Fumogeni e torce a go-go, come probabilmente non si vedeva da tempo in una finale continentale. Dybala porta in vantaggio la squadra di Mourinho e l’esultanza è di quelle importanti, con partita interrotta per fitto lancio di pirotecnica. Sì ok, è la grande illusione. Il guizzo che per diversi minuti manda in paradiso un popolo e gli fa credere in qualcosa che poco tempo prima avrebbe pensato troppo più grande di lui. Ma il calcio, come detto in avvio, si nutre anche e soprattutto di questo. Nel secondo tempo arriva il pareggio del Siviglia, che è ovviamente una tegola per i romanisti. La Sud formato trasferta cala nella sua intensità, forse vittima dell’ansia, forse della tensione, ma questo è ovviamente un punto a sfavore della squadra. Che fino ad allora si era sentita trascinata da una tifoseria che l’aveva fatta giocare in casa, senza esagerare. Ai lati si prova a ritirar su la prestazione, con i ragazzi della Nord che lentamente scuotono nuovamente buona parte del settore. Il sussulto di romanismo che non deve lasciare nulla al caso e non si deve dar vinto, neanche se arriverà una delle batoste più fragorose della storia recente. L’arbitro Taylor, il rigore non assegnato, i penalty ancora una volta fatali alla squadra con la Lupa sul petto. Tutta storia che conosciamo bene. L’esultanza, comprensiva, dei sivigliani per la settima coppa.

A proposito, a margine è giusto anche dare un giudizio sulla performance iberica: nel primo tempo i biancorossi sembrano stentare, quasi sorpresi dal clima incandescente creato dal pubblico italiano. Il pareggio e il calo dei romanisti li fa emergere nella ripresa, sebbene mi si permetta di dire che al netto di sontuosi battimani, diversi cori eseguiti in maniera impeccabile e due sciarpate bellissime, non mi sento di annoverare il loro tifo come tra i più belli (e soprattutto continui) visti in giro per il Vecchio Continente. Beninteso: parliamo di una tifoseria storica, che per il movimento spagnolo resta comunque di assoluto valore e che ha ben figurato rispetto a tanti falsi miti (inglesi su tutti) che girano in campo internazionale.

Il vialone di fronte alla Puskas Arena si riempie di vessilli giallorossi. Nuovamente. Ma stavolta non ci sono facce speranzose, non ci sono ragazzini sorridenti e cortei pirotecnici a dirigersi verso le entrate. C’è lo sconforto degli sconfitti. La tristezza che ti trafigge l’anima e che solo chi è dentro questo metaverso può capire. Al di fuori c’è un Mondo pronto a etichettarti come idiota perché in lacrime per una stupida partita di calcio. E forse qualcuno lo invidia in questo momento. Invidia il vedere in campo una casacca che per molti rappresenta tanto, molto, come una semplice sgambata tra ventidue atleti. In un’epoca dove non ci emozioniamo più e in cui facciamo fatica a scoprire i nostri sentimenti – abituati quasi farcene beffe pur di non analizzarli – quest’accozzaglia umana depressa e piangente ha l’odore di normalità. Una normalità mesta, malinconica, ma veritiera. Che ancora una volta unisce tutti. Senza distinzione, trasversalmente.

Le strade verso l’Italia tornano a riempirsi. Nel silenzio. Di tutti. Ci sono macchinate che non parleranno fino all’arrivo a Roma. Altre che preferiranno posticipare la partenza. E altre ancora dove qualcuno proverà a parlare della partita, ma qualcun altro lo bloccherà. Per non mettere il dito nella piaga. L’appuntamento con la storia è stato fallito, nessuno si illude del contrario. Tutti sanno che potranno passare altri trent’anni prima di rigiocare una finale europea e che magari nelle loro vite potranno incombere problemi e vicissitudini tali da non vederla. Il malessere è forse provocato proprio da ciò. Da quel famoso attimo di gloria da vivere dopo anni di anonimato e battaglie, sfiorato ma visto andar via. Però, furono proprio i padri di questi ragazzi ad appendere uno striscione iconico in quel Roma-Milan di Coppa Italia del 1984: “La coppa va, la gloria resta”. Perché se nulla può consolare, la consapevolezza dei momenti vissuti, dell’aver partecipato al cammino, non può essere scalfita. E la gloria oggi, forse con un pizzico di prosopopea, è data anche da quelle sanzioni UEFA che toglieranno il pubblico alla Roma per due partite, oltre a punirla pecuniariamente. Sanzioni forti, che però sottolineano ancora una volta la base ribelle e poco incline agli schemi di una tifoseria con migliaia di difetti, ma che nella sua follia ha eternamente costruito la certezza di esserci e assorbire anche le botte più forti. La gloria sta nel non morire malgrado tutto. Mai.

Testo Simone Meloni

Foto di Agenzia