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“Tutto in lui era vecchio tranne gli occhi che avevano lo stesso colore del mare ed erano allegri ed indomiti”.

In cuor mio son certo che avrebbe capito e apprezzato, perché se mi ritrovo a cercare la mia strada tra una battitura e una masnada di versi sparsi lo devo anche alle sue attenzioni.
E così, col cuore provato da un lutto improvviso, ho deciso di partire alla volta di Vila-Real (Villarreal in castigliano) per render omaggio ad un uomo che, nel suo esser burbero e fortemente autoritario, tra un rimprovero e un pollice verso il cielo, ha meticolosamente innaffiato la piccola pianta della passione verso la scrittura, educando la mia vista con le sue gocce d’esperienza. Questa trasferta, questi luoghi e questi odori avrebbero generato in lui un turbinio di sensazioni positive, perché prima di me quegli occhi che tanto somigliano ai miei hanno osservato con doverosa attenzione quel mondo per molti misterioso – per questo spesso e volentieri frainteso e vittima di pregiudizio.
Come quella volta di un lontana e mite domenica d’inverno del 2001 in cui decise di portarmi allo Stadio Flaminio per assistere alla sfida di C1 tra l’allora gloriosa Lodigiani e il suo Taranto.
Lo portava nel cuore, segretamente e con fare paterno, questo amore per i colori della squadra della sua città; un eterno animo da bambino che mi catechizzava solennemente con la televisione sintonizzata sui risultati in tempo reale del Televideo, aspettando un aggiornamento dal quartiere Salinella – sede dell’Erasmo Iacovone.

Ricordo quel pomeriggio nell’impianto capitolino – oggigiorno abbandonato ad un triste destino – con particolare minuzia: la Roma scudettata impegnata la sera precedente nell’anticipo del sabato contro la rivelazione Chievo Verona di mister Delneri, piegato con un rotondo 0-3 che assicurò alla banda-Capello tre punti essenziali . E così, senza i giallorossi a disturbare la mia attenzione, mi prese per mano portandomi tra quelle quattro tribune scoperte nel cuore pulsante di Roma Nord.
Di fronte a me circa seicento tifosi provenienti dalla “Città dei due mari”, capaci di trascinare la squadra alla vittoria con un tifo incessante, viscerale, passionale; condito da una fumogenata nell’intervallo che rapì letteralmente il mio giovane cuore.
L’amore profuso da quei sostenitori fu ripagato dalla rete del definitivo 1-2 siglato da Christian Riganò, oltre ad un autentico miracolo in “Zona Cesarini” dell’estremo difensore Di Bitonto. Il bomber di Lipari, per ricompensare il folto seguito di tifosi, dopo aver realizzato la zampata decisiva sfilò sotto al settore ospiti battezzando tutte quelle pezze che, da molti minuti, avevano attirato la mia attenzione: “Gruppo Zuffa”, “Krazy Group”, “Teste Matte”, “Wild Kaos” – prima di arrestare la corsa come un torero nel bel mezzo di una corrida sotto il lungo striscione “Ultrapaz”, sopra il quale sormontava la scritta nera su base gialla per i diffidati.
In quella stagione il Taranto – allenato dall’istrionico Eziolino Capuano prima e poi da Gianni Simonelli – raggiunse la finale-promozione perdendo il treno della Serie B al cospetto del Catania, capace di imporsi di misura in casa e resistere alla bolgia dei 25mila dello Iacovone. La Lodigiani, invece, a causa del diciottesimo posto fu retrocessa in C2, il primo scivolone di una triste storia che ha privato la Capitale della sua terza squadra, con buona pace del verso “la Lodigiani giocherà in Serie A” di Fabrizio Moro (tratto da “Alessandra sarà sempre più bella, ndA).
Questa tifocronaca – benché ci sia purtroppo poco da raccontare in merito al pubblico di casa, vittima della scriteriata repressione spagnola – è per mio nonno, scomparso martedì scorso lasciando una piccola dolorosa ferita nel mio giovane e immaturo cuore di uomo e aspirante scrittore. Buon viaggio, Generale.
Ma i veri viaggiatori partono per partire e basta: cuori lievi, simili a palloncini che solo il caso muove eternamente, dicono sempre ‘Andiamo’, e non sanno perché. I loro desideri hanno le forme delle nuvole”.

Una pinta di Maes fra le mani osservando l’amena Place de la Liberté di Bruxelles, prima tappa di questo nuovo peregrinare in giro per l’Europa al seguito della brigata giallorossa.
Altri centoventi minuti tra le nuvole e finalmente Valencia, cullata dal fiume Turia e bagnata dal Mediterraneo, si apriva ai miei occhi come penultima tappa di questo viaggio in un soleggiato pomeriggio impreziosito dal tragitto verso il Barrio del Carmen condito da un’amichevole chiacchierata con un tassista-tifoso, il quale pur facendo finta di aver dimenticato la rotonda vittoria della Roma al Mestalla di oltre dieci anni fa, raccontava con un pizzico di malinconia la vicenda relativa al nuovo stadio valenciano. Perché tutto il mondo è paese e se a Roma tra un vincolo e una Sovrintendenza il progetto vacilla, nella città del sud della Spagna l’impianto già c’è e svetta sui palazzi limitrofi, ma non è ancora agibile a causa della volontà politica di non ultimarne i lavori. Un colosso da centomila posti in luogo dello storico Mestalla, un progetto sorto sotto le migliori stelle e arenatosi sul più bello nonostante un aspetto esterno praticamente ineccepibile.

La vigilia scivola via tra un brindisi nel centro storico e quattro chiacchiere in un appartamento pullulante di romanisti, coi quali l’indomani avrei desinato nel ristorante che, oltre settant’anni or sono, è stato luogo prediletto da un certo Ernest Miller Hemingway.
Affacciati sul lungomare ai piedi della Malvarrosa smorziamo l’adrenalina tipica del “día del partido”, e la mole di paella ingurgitata, mirando la lunga distesa di sabbia colpita dalla forza divoratrice del mare. Smaltiti i fumi di qualche brindisi di troppo, siam pronti all’ultima tappa: i circa sessanta chilometri che separano Valencia dalla cittadina in provincia di Castellò famosa per le sue ceramiche ma soprattutto per il Villarreal FC – formazione con una discreta storia tra campionato nazionale e competizioni europee, fra le candidate alla vittoria finale. Almeno a detta di molti. In sul calar del sole i resti delle mura civiche edificate nel XIII secolo come simbolo della Reconquista cristiana ad opera di Giacomo I d’Aragona, si mostravano al mio sguardo in tutta la loro decadente bellezza e, superato con qualche difficoltà l’inusuale traffico causato dall’afflusso di circa duemila romanisti (perfettamente mischiati ai tifosi locali) mi ritrovavo finalmente su Carrer Blasco Ibánez, sede del fu Madrigal rinominato recentemente Estadio de la Ceramica.
Un impianto quasi centenario dalla capienza inferiore alle trentamila unità sul quale svetta un sottomarino giallo in onore del soprannome beatlesiano affibbiato alla compagine locale. Dall’esterno un autentico gioiellino incastonato tra palazzi d’epoca e qualche ristorante, eppure non bisogna mai giudicare un libro dalla copertina. Difatti, come spesso m’è capitato di osservare a queste latitudini, le gradevoli strutture architettoniche spesso al loro interno contengono degli spazi tanto freddi quanto asettici e così anche a Vila-Real la longa manus di una Commissione Antiviolenza armata di scure ha decapitato la passione popolare mandando in esilio ogni forma di folklore e spettacolo sugli spalti, in nome di una lotta ad un movimento ultras ridotto ai minimi termini. La consueta tattica del punire tutti per non educar nessuno.

Esempio lampante di quanto detto è l’ingresso nel settore ospiti posto nell’ultimo anello di quella che, per familiarità, chiamerò curva Sud. Un ragazzo obbligato a togliersi la felpa e girarla nell’altro verso a causa della parola “ultras” impressa nel cotone, il divieto di accesso alle bandierine per impedire l’utilizzo delle temibili aste in plastica di qualche centimetro e ancor più quello ad uno dei più rinomati, storici e antichi vessilli del tifo giallorosso, costretti gli appartenenti del gruppo a non esporlo poiché raffigurante un simbolo ritenuto fortemente violento. Questi ultimi, in nome di una mentalità sempre più desueta ai massimi livelli calcistici, hanno preferito rimanere sotto l’impianto in segno di protesta per tutto l’arco della contesa. Chi conosce, o chi almeno si limita a cercare di capire le dinamiche di un gruppo, potrà condividere o meno una scelta tale; gli altri son liberi di giudicare. Dispiace non averli avuti con noi in una serata del genere, avrebbero aiutato ancor di più il settore ospiti nella realizzazione di una straordinaria lezione di tifo ai sonnecchianti spettatori iberici, i quali non esitavano a lasciar l’impianto ad un’ora dal fischio d’inizio.

Perché se la Roma inaspettatamente prendeva letteralmente a pallonata il “Submarino amarillo” grazie alla splendida rete di Emerson Palmieri e ad un Edin Dzeko tornato nella Capitale con il pallone sotto il braccio, sugli spalti i romanisti davano sfoggio di un tifo non perfettamente omogeneo ma dalla violenza sonora innegabile. Il motivetto ripreso da un noto coro del San Lorenzo de Almagro caratterizzava i novanta minuti e più di tifo, oltre ad alcuni vecchi classici e all’ormai consueto “apprezzamento” verso i fautori nostrani della sicurezza, capaci di innalzare barriere per poi esser costretti a toglierle parzialmente come avverrà dal prossimo Derby di Coppa Italia.

Un settore ospiti unito come raramente è capitato nelle ultime apparizioni europee della Roma, con diversi battimani tenuti con successo, alcuni seggiolini vittime di esultanze scalmanate e la vetrata posta di fronte la prima fila che, più di una volta, è sembrata in procinto di frantumarsi sotto i colpi a mano aperta di chi voleva dettare i tempi a mo’ d’un direttore d’orchestra.

Con i palmi gonfi, gli occhi ancor arrossati dal denso fumo di alcuni fumogeni capaci di colorare di giallo e rosso la fresca serata spagnola e il viso stravolto ripensavo così all’eroica impresa della banda Spalletti, mentre una fila sotto di me un bambino di non appena otto anni guardava il padre con gli stessi occhi con cui anni prima osservai i tifosi del Taranto in un freddo pomeriggio romano. Ci guardiamo per un istante con le facce di chi sa bene quanto conti un successo del genere nel discorso relativo alle candidate al trono d’Europa, ma non lo diciamo neanche a bassa voce perché sappiamo che a dirle, le cose belle non succedono.

Gianvittorio De Gennaro