Gli ultras sono spesso nostalgici. È una tendenza che non mi piace tanto, perché rimpiangere, o peggio ancora affermare, come sento alcune volte fare a vecchi ultras che: «Gli ultras nel 2018 non ci sono più», è riduttivo ed è falso.

Era diverso prima, su questo non ci sono dubbi, ma gli spalti che abbiamo adesso sono anche il risultato di quello che non abbiamo fatto o che non abbiamo voluto combattere. Perché tutti noi rinunciamo a certe cose, per comfort, per stanchezza o per qualsiasi altro motivo. Difatti il nostro mondo è pur sempre uno specchio seppur deformante della società. I giovani di oggi, che vanno in curva con l’iphone, che assumono certi atteggiamenti o che stanno a casa a guardare la partita su Sky sono il risultato di quest’epoca consumistica e noi gli chiediamo di essere ultras come prima? Un po’ troppo facile senza assumersi l’onere dell’educazione e del lavoro…

Ma lascio queste considerazioni per fare comunque un tuffo nel passato. Perché anch’io alla fine sono come tutti e sento la nostalgia. Vorrei rivivere i derby della fine degli anni ’80 e ’90, quando allo stadio, in Italia, gli ultras davano lezione al mondo intero per il tifo. Ma come fare questo e tornare nel passato? È abbastanza semplice, perché la modernità ha forse tanti difetti, ma ci permette di diminuire le distanze e i tempi per viaggiare: basta andare su Internet e prenotare un volo per il Maghreb. Di più, abbiamo la fortuna di avere un passaporto di prima classe, che ci permette di fare senza problemi il viaggio verso il versante meridionale del Mediterraneo, che nella direzione opposta non è così facile per chi non possiede un maledetto passaporto europeo.

Il Nord Africa mi affascina, devo essere sincero: per quelli che non mi hanno mai letto, mi permetto di darvi un piccolo consiglio e di guardare i miei servizi sulla Tunisia (Stade Tunisien-Gabes, Club Africain-Gasfa e Esperance Tunis-Stade Tunisien) e l’Algeria (Mouloudia Club d’Oran-USM Alger e Mouloudia Club Alger-USMA). Forse sono di parte, ma andare in questi paesi mi ricorda spesso che il Mediterraneo è, o dovrebbe essere un tratto d’unione tra popoli molti simili e non una barriera mortale. Questa fascinazione deriva da tante cose e mi servirebbe più tempo e spazio per spiegare la mia visione. Ma una cosa è certa, se vado spesso in questi paesi è per prima cosa, per vivere il tifo ultras che si è sviluppato negli ultimi quindici anni nel Maghreb. Assomiglia molto a quello italiano dagli anni ’80-’90 e sembra veramente di fare un bel viaggio nel tempo. La passione del calcio in questi paesi è pazzesca e si nota nel quotidiano e nei piccoli dettagli che questa volta vado a vivere in prima persona a Casablanca.

La mia destinazione è questa città mitica, dove non fu girato il lungometraggio che l’ha resa famosa nel mondo intero. Comunque, una frase del film di Michael Curtiz, con i famosi interpreti Humphrey Bogart e Ingrid Bergman, si dimostra ancora veritiera 76 anni dopo: «Se cercate l’avventura, venite ad incontrarla qui».

Arrivo alla vigilia della partita, mentre lascio il Nord Europa con temperature bassissime. Qui in febbraio ci sono 16 gradi con un bel sole. Ma non ho tempo per perdermi in considerazioni sul meteo perché ancora non so come aprire il mio “sesamo”. Per chi non lo sapesse, i vostri cari corrispondenti, che lavorano per la gloria e ci rimettono pure soldi, hanno un’unica ossessione: avere questo maledetto accredito! Ovviamente ho mandato una valanga di mail e domande ufficiali alla società del Wydad Casablanca, che non mi ha mai degnato di una risposta. Allora non mi resta che prendere un taxi per lo stadio Mohammed II.

Arrivato lì, trovo una struttura piuttosto vetusta dall’esterno ma affascinante, che assomiglia un po’ alle costruzioni dei paesi ex-socialisti. Edificato nel 1955 come stadio Marcel Cerdan, fu rinnovato due volte, nel 1983 per i giochi del Mediterraneo, e nel 2000 per la candidatura del Marocco alla Coppa del Mondo. Quando entro sulle gradinate, mi colpisce la bellissima struttura, moderna e funzionale allo stesso tempo. Ovviamente non c’è quasi nessuno attorno a me, questo è il bello dei paesi seri, dove nessuno mi dice niente o peggio mi impone di comprare un biglietto carissimo per visitare un monumento di dominio pubblico. Il silenzio assordante è perturbato solo dalle gesta dei giardinieri che si occupano del terreno di gioco, come se fosse un tappeto persiano del 14° secolo.

Sotto i distinti trovo l’ufficio del Wydad e ci sono una ventina di colleghi marocchini che sembravano aspettarmi come il Santo Graal. Per fortuna, dopo un po’ di discussioni, arrivo a convincere l’addetto stampa che devo essere in campo e qui chiudo la prima tappa della mia maratona. Nel taxi di ritorno, l’autista mi chiede il perché della mia presenza in Marocco, quando gli dico che è per il derby di Casablanca, mi risponde: «Peccato, domani non vedrai scenografie bellissime da parte delle curve». Secondo punto positivo, qua la gente comune conosce le dinamiche di stadio e di questi ragazzi che fanno vivere gli spalti, difatti l’autista si ferma pure per permettermi di fotografare uno dei tanti murales che ci sono in giro per la capitale economica del Marocco.

Casablanca non è una meta turistica, e questa per me è una fortuna. Devo essere sincero, non ho grande piacere ad essere con i miei connazionali che vengono in Marocco e si comportano in un modo che mi ricorda una forma di post-colonialismo. Casablanca è una città tremenda, non particolarmente bella, anche se alcuni suoi posti sono da visitare. Qua c’è sempre rumore, traffico, smog, una marea di gente che non ti calcola di striscio, poveri e ricchi, gente di tutto il Marocco ma anche di tutta l’Africa, venuta qui per tentare l’avventura e sperare in una vita migliore. È la città bianca, come suggerisce il suo nome, Dar el Beida in arabo. Ma la metropoli possiede un lato molto nero, come il film «Casanegra» di Nour-Eddine Lakhmar l’aveva soprannominata. Le tensioni politiche e sociali sembrano costantemente in procinto di esplodere in un’onda di violenza come aveva fatto vedere l’ultimo film di Nabil Ayouche, «Razzia». Ma con il derby in arrivo domani, Casablanca sembra molto tranquilla alla vigilia dell’incontro.

Quando mi sveglio all’indomani, capisco che c’è tensione nel aria. Il derby di Casablanca non riguarda solo la città, ma un intero paese. Perché il Raja e il Wydad sono le due squadre più popolari del Marocco. Fondato nel 1937, il Wydad (che significa «amore» o «affezione» in arabo) fu una società sportiva di nuoto, per permettere a musulmani e ebrei di potere accedere alle piscine della città. All’epoca il Marocco era un protettorato francese, questo significava semplicemente che i francesi decidevano di tutto ed erano cittadini di prima categoria rispetto ai locali. Il Wydad è dunque un simbolo di lotta contro il colonialismo e fu difatti la prima società sportiva marocchina. Nel 1939 nacque la sua sezione di calcio e dentro confluiranno tanti partigiani dell’indipendenza del Marocco che lotteranno in prima persona per essa. La società biancorossa, con l’aiuto di giocatori bravissimi, diventa in breve tempo la più titolata del paese, tanto che oggi dispone nella sua bacheca di ben 19 scudetti, 9 coppe del Marocco e 2 Champions League africane. Alcuni dicono che il Wydad è la squadra della Casablanca per bene, anche se oggi, nel 2018, sarebbe difficile analizzare la tifoseria biancorossa unicamente sotto il profilo socio-economico.

Il Raja, come il Widad, non fu creato come squadra di calcio in origine, ma come una compagnia di teatro. Nel 1949, la sezione calcio vede la luce nel quartiere popolare di Derb Sultan. I tifosi biancoverdi devono aspettare il 1988 per festeggiare la conquista del primo scudetto. Nel 1996, la fusione con l’Olympique di Casablanca, porta il Raja a dominare i campi di calcio del Regno: i giocatori con l’aquila biancoverde vinceranno 7 degli 8 scudetti dal 1996 al 2004. Oggi la società dispone di 11 scudetti, 8 coppa del Re e due Champions League Africane. Devo aggiungere che le due squadre usano lo stesso stadio per i loro incontri casalinghi, lo stadio Mohammed V.

La partita è alle ore 15.00 e arrivo nel quartiere Marif un’ora prima. La zona, borghese è diversa del centro della città ed è presidiata da un numero incredibile di agenti delle forze dell’ordine. Le due tifoserie son separate: dietro la curva Nord è zona dei biancorossi, dietro la curva sud è zona biancoverde. Le due tifoserie son rivali e qua non vige alcun patto di non aggressione, per questo ci sono già controlli e prefiltraggi ad un chilometro dallo stadio. Per arrivare presso l’impianto devo passare due altri prefiltraggi. C’è pochisima gente attorno allo stadio, solo poliziotti a cavallo e gli ultimi tifosi in arrivo.

Quando metto piede sugli spalti manca mezz’ora alla partita. Il colpo d’occhio è spettacolare: alla mia sinistra c’è un’onda rossa, alla mia destra invece è un mare verde. Come capirò a breve, la maggiore parte dei “curvaioli” va allo stadio con la maglia della squadra e l’effetto visivo è davvero bellissimo.

Entro sul campo senza problemi e noto un numero incredibile di fotografi. Fa capire come l’evento sportivo sia importante per il paese. Subito noto che non ci sono striscioni nelle due curve, segnale chiaro della repressione che stanno vivendo gli ultras marocchini. Perché anche qui la mano dello Stato ha colpito la «meglio gioventù» dopo alcuni eventi particolari. Alcuni di natura violenta, come quello che ha visto due tifosi del Raja perdere la vita nel 2016, che hanno convinto lo Stato marocchino a rinunciare al dialogo per seguire la via più facile della repressione. Il numero di poliziotti è davvero esagerato, tra militari, polizia in divisa e in borghese. Ma dalla primavera del 2016 le attività dei gruppi ultras sono proibite in Marocco, anche se nei fatti i diversi gruppi hanno continuato a tifare, rinunciando però alle scenografie e alcuni gruppi ai loro striscioni.

Decido di fare un primo giro sotto le due curve e vedo simboli palestinesi. Questa causa, popolare in alcune curve italiane, è qua molto sentita e tutte le tifoserie del paese portano bandiere e fanno slogan per la Palestina. Quasi tutti i ragazzi che suonano i tamburi dal lato Wydad, hanno una maglia bianca della nazionale palestinese. Anche in curva sud, cuore pulsante del tifo biancoverde, ci sono anche varie bandiere palestinesi. Nella curva si sente un boato seguito da canti: il loro leader, Skwadra, capo della tifoseria e ex-Green Boys, è appena uscito da due anni di galera, dopo scontri interni alla tifoseria biancoverde. Questi scontri cruenti, durante una partita, tra «Ultras Eagles» e «Green Boys» hanno causato la morte di due giovani ragazzi il 19 marzo 2016. Non entro nella dinamica dettagliata dei fatti, ma ci sono tante zone d’ombre su questi scontri, tanto che durante il processo, il capo ultras riceverà il sostegno degli «Ultras Eagles». Oggi l’ascia di guerra tra i due gruppi sembra sepolta e si nota, perché non ci sarà traccia alcuna di rivalità, ma una bell’unione del tifo verde.

Ultimo dettaglio importante, i distinti presentono spazi vuoti: qua ci sono due categorie di biglietti, i VIP per la gradinata ed i biglietti normali per i distinti e le curve. Non a caso le porte tra i distinti e le curve son aperte, ma nei distinti c’è una «no mans land», una zona cuscinetto per evitare che le due tifoserie vengano a contatto. La metà dei distinti che accoglie i verdi è più piena di quella parte che riceve i rossi.

Un po’ prima delle ore 15.00, le due squadre entrano in campo, precedute dalla bandiera rosso-verde del Marocco. Poi è il momento del inno nazionale, che è tradizione qui per tutti gli incontri di Botola (il nome della serie A marocchina). E in questo momento che le due curve tirano fuori i loro striscioni: visto che le attività degli ultras sono illegali, i gruppi li entrano di nascosto.

Decido di cominciare la partita sotto la curva nord, la casa del tifo Wydadi. Il movimento ultras in Marocco ha fatto i primi passi nel 2005. Il primo gruppo in assoluto, ad avere messo uno striscione allo stadio, furano gli Ultras Askary nell’ottobre 2005, poi alcune settimane dopo lo scenario si ripeterà a Casablanca, sia per i ragazzi del Raja con i «Green Boys» che per i loro rivali del Wydad con i «Winners».

In curva Nord c’è un solo gruppo, i Winners, che hanno decine di sezione in tutta Casablanca, ma anche in tutto il resto del paese ed anche fuori dei confini nazionali. Si vede che son organizzatissimi, si capisce quando i due lanciacori cominciano a lanciare i cori senza megafono: qua tutto si fa a voce e funziona benissimo. La curva è occupata al 90% da aderenti ai Winners e appena i coristi fanno un gesto o intonano un coro, la curva risponde immediatamente. Bellissimo, rimango seriamente stupito dai veri boati dei biancorossi.

Sulla ringhiera c’è un piccolo striscione con la scritta «Ultras» in bianco su sfondo nero. Sembra che quello principale non sia riuscito ad entrare di nascosto ed hanno optato per questo modello ridotto. Accanto c’è il simbolo del gruppo, la testa di un «Fedayn» con un fazzoletto ed un berretto rosso. Infine ci sono cinque stendardi ai lati dello striscione principale scritti in italiano, in francese ed in arabo. Quello in arabo è contro la repressione, mentre in francese si può leggere il famoso «Libertà per gli ultras» ed in italiano uno slogan del gruppo, «Uomini d’onore».

Ottima scelta la mia di cominciare la partita sotto la curva nord, perché i Winners organizzano una piccola scenografia. Vengono alzate centinaia di sciarpe «made in ultras» di colore rosso, nero o bianco. La polizia ne ha sequestrate altre centinaia al prefiltraggio, come avrò modo di vedere io stesso all’uscita. Su queste sciarpe, i «Winners» hanno scritto diversi slogan in arabo, contro il calcio moderno, che gli ultras non possono essere proibiti oltre ad un classico «Ultras liberi» in italiano. I due lanciacori son posizionati nella parte medio bassa della curva, mentre al centro si trova un’«orchestra» composta da tre grancasse e tre tamburi. La cosa incredibile è che sembrano sospesi nell’aria, ma zoomando capisco che durante tutta la partita saranno tenuti sulle spalle da dei volontari!

Il tifo è bellissimo e mi affascina, anche se non capisco l’arabo. Le due curve son spettacolare ed anche se son sotto la curva nord, ogni tanto sento i boati della curva opposta. Dopo un quarto d’ora decido di spostarmi presso la tifoseria biancoverde. Gli stadi con la pista d’atletica hanno il grossissimo vantaggio per i fotografi di poter girare tranquillamente durante la partita. Arrivato sotto di loro, noto tre striscioni: quello degli storici «Green Boys», quello degli «Ultras Eagles» ed infine quello di «Derb Sultan», nome del rione omonimo dove fu fondato il Raja. Alcuni ragazzi mi dicono che questo ultimo striscione rappresenta più un “super club” di tifosi che un vero e proprio gruppo ultras. Comunque, la triade che anima il tifo biancoverde ci sa fare e si vede. Come in tutti i derby che si rispettino, spuntano i primi striscioni offensivi, gli ultras biancoverdi ne tirano fuori uno con cui accusano i rivali di essere favoriti, sul piano sportivo, dai piani alti del calcio africano.

La partita sul campo è tesa e i giocatori non si risparmiano. Ma è il Wydad, al ventesimo, che approfitta per segnare il primo goal. La metà dello stadio esplode letteralmente, mentre una ventina di fumogeni e torce son accese in curva nord, ma anche una in tribuna! Geniale quello che ha avuto questa idea! I fumogeni son formalmente vietati qui, ma quando vengono accesi, nessuno rischia qualcosa.

Sui gradoni il derby continua e i verdi tirano fuori un altro striscione contro i cugini. In francese, la seconda lingua del paese, anche se l’inglese prende sempre più piede nel Marocco globalizzato. Lo striscione riporta: «Onorate lo shabbat, non accendete fuochi»; in Marocco, per “fuochi” si intendono le torce e nello specifico, i cugini del Wydad, vengono paragonati agli ebrei. Lo shabat (sabato, stesso giorno in cui si gioca questa partita) per chi non lo sapesse, è il giorno festivo degli ebrei, durante il quale gli ebrei tradizionalisti non possono accendere la luce.

Appena lo striscione polemico degli «Ultras Eagles» viene buttato nel fosso di fronte alla curva, devo girarmi verso la curva dei rivali che tira fuori quattro grandi striscioni di stoffa in inglese: «Sarebbe meglio lasciarci per conto nostro», « Non abbiamo bisogno di una polizia del pensiero», «Non abbiamo bisogno d’educazione», « Distruggiamo le regole». Per chi non è appassionato di musica, le frasi son citate dalla famosissima canzone dei Pink Floyd, «Another brick in the wall». Ancora una volta la creatività degli ultras mi lascia a bocca aperta, questa presa di posizione chiara e forte indirizzata nemmeno tanto velatamente al governo marocchino che ha proibito le attività degli ultras. Nello stesso momento in cui i Winners fanno vedere questi quattro striscioni, le sciarpe della coreografia vengono nuovamente tese verso l’alto e l’effetto è notevole. Spettacolo rilevante non solo per il movimento ultras marocchino, ma tranquillamente paragonabile a quanto avviene nel resto del mondo ultras in generale. Creatività e anticonformismo, due parole chiave esplicative del lato più bello degli ultras.

Cinque minuti dopo questa messa in scena, è la curva del Raja a offrire un altro spettacolo: una semi sciarpata-sbandierata che coinvolge tutta la curva sud, ma anche parte dei distinti e della tribuna. Uno spettacolo non solo per gli occhi ma anche per le orecchie, perché qua si canta anche, e forte! Contemporaneamente, la curva del Wydad decide di tirare fuori uno striscione contro i rivali in arabo. Anche i Winners toccano l’argomento sportivo ed accusano i verdi di essere favoriti dagli arbitri, ricordando che il Raja ha assorbito un’altra squadra che ha contribuito al suo dominio sul campo. Appena lo striscione cade nel fossato, i giocatori in verde segnano il gol del pareggio. Delirio per metà del pubblico, occasione perfetta per accendere altre torce.

Il tifo continua, ma per i fotografi non c’è riposo. I Winners tirano fuori l’ennesimo striscione offensivo contro i dirimpettai. Scritto in inglese, è anche piuttosto pesante perché accusa i rivali di essere collusi con le autorità. C’è scritto: «Le puttane vendono il loro culo», le cui iniziali formano l’eloquente acronimo “BASTA”. I verdi non perdono tempo e rispondano con un altro striscione offensivo in arabo del gruppo «Derb Sultan».

Il primo tempo finisce e ho l’impressione di aver fatto un maratona. Sono stanco e felice dopo un primo tempo di alto livello, dopo il quale auguro davvero a tutti voi di vivere simili emozioni sugli spalti. Ho appena avuto il tempo di trovare un bagno e una bottiglia d’acqua, che torno sulla pista per questo secondo tempo. Noto che anche i tifosi in sedie a rotelle son divisi in due parti diversi, alla mia sinistra quelli del Wydad ed alla mia destra quelli del Raja, tutti, ovviamente con i colori sociali addosso!

In curva sud si nota uno stendardo col famoso slogan anti-polizia che ritrae il logo dei Fedayn Napoli, che tutti hanno ripreso: il segnale di divieto da cui spunta una mano che ferma il braccio del poliziotto armato di manganello. Tanti ragazzi in prima linea, sia in curva sud che in curva nord, portano una maschera o si nascondono: un amico mi spiega che alcuni sono ricercati della polizia o devono stare attenti a non farsi vedere in mezzo agli ultras per non avere ripercussioni con il proprio lavoro. Altro striscione offensivo dei verdi ed è interessante vedere questa prassi tipica dei derby italiani, in cui non ci si limita a copiare una certa attitudine ma la si alimenta di specificità propria grazie a messaggi ricercati che sono esposti, ovviamente, senza permesso delle autorità.

Cinque grancasse e due tamburi in curva Sud, la sede del tifo verde, sono posizionati in particolare a centro curva, come avviene per i rivali. Il loro livello tecnico ha anche nel loro caso del professionale, con un ritmo sempre bello e piacevole da ascoltare, oltre che fondamentale per coordinare ed accompagnare i canti. Per alcuni ultras non servono a niente, ma credo che questo strumento “old school” sia utilissimo quando ben utilizzato, e qui lo si nota benissimo.

Le due curve non si risparmiano, sia a livello di canti, che sono sempre ad alti livelli, che con i messaggi. Poi al 59°, un ragazzo in curva sud decide di accendere un fumogeno. È solo, ma il fumo verde si distingue benissimo, poi dopo un minuto altri seguono il suo esempio e in pochi secondi tutta la curva si accende. Un centinaio di torce, fumogeni, barattoli vengono accesi in tutta la curva sud e lo spettacolo è stupendo, tanto che tutti i fotografi smettono di guardare la partita per immortalare questo show pirotecnico. L’indomani, alcuni giornali lo inseriranno nelle pagine sportive per illustrare questo derby. Nella stessa fase, gli «Ultras Eagles» decidono di esibire una ventina di due aste che, visto che le aste sono proibite, vengono tenuti a mano. Si nota anche uno stendardo contro la polizia.

La curva del Wydad non dimentica gli “amati” cugini e esibisce uno striscione metà in francese e metà in italiano per dire che gli ultras del Raja hanno poco valore. Poi ancora altri messaggi in arabo sono esposti dalle due curve e al minuto 81, la curva del Wydad decide di tirare fuori i suoi di fumogeni, peccato solo che la curva nord abbia il vento alle spalle e lo spettacolo ha meno effetto rispetto a quello dei “cugini”. In trenta secondi tutto il fumo si riversa sul campo, tanto che l’arbitro è pure costretto a sospendere la partita per alcuni secondi ed un poliziotto, in servizio sotto la curva nord, svanisce venendo del tutto fumo denso.

Il tifo, anche sotto il fumo continua quando rimangono ormai pochi minuti alla fine della partita. Un “Winners” decide di accendere un fumogeno a barattolo arancione che crea una suggestiva coltre di fumo, poi altri messaggi contro i rivali, sia dei verdi che dei rossi ed infine gli ultimi minuti della partita, a cui l’arbitro aggiunge altri sei minuti di recupero. Ne approfitta il Raja che segna il goal della vittoria. La curva sud sembra crollare, mentre il popolo rosso non crede ai suoi occhi. Finisce così, per la grande gioa dei verdi, alcuni dei quali entrano in campo ad abbracciare i loro beniamini o farsi un selfie con loro. Per 5 minuti, i giocatori del Raja ringraziano il loro pubblico. Appena rientrano negli spogliatoio, gli ultras ripiegano i loro striscioni e li nascondono in mezzo alla folla, per uscire.

La mia partita finisce qua, sono stanchissimo, ho vissuto con un’intensità fortissima questo derby in cui fare il fotografo può essere molto difficile avendo due tifoserie così belle davanti agli occhi: hai sempre paura di fare la scelta sbagliata o di perderti uno striscione dalla parte opposta rispetto a quella in cui stai scattando. Ma alla fine, questa sana droga che è il tifo mi ha dato tanti stimoli. Sicuramente, il Nord Africa sta contribuendo al futuro del movimento ultras ed al suo rinnovamento.

Sébastien Louis
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