Due mesi di trasferte vietate. Due mesi in cui a romanisti e napoletani non sarà consentito viaggiare al seguito delle rispettive squadre. Due mesi che racchiudono anni di inettitudini, scelte dettate dal clamore mediatico e dalla pancia dell’opinione pubblica. Non certo dalla reale esigenza di prevenire ciò che non si è prevenuto troppe volte, lasciando aperta la stalla e gridando di stupore una volta che i buoi sono scappati.

Sì perché nel complesso modo di gestire le italiche tifoserie non basta la funzione punitiva del codice penale. Non bastano decreti e decretini, restrizioni e Daspo a sanzionare che si rende protagonista di atti violenti (ma anche chi accende semplicemente una torcia per festeggiare il gol della propria squadra). Non bastano neanche dati chiari, che parlano di arresti e incidenti in ambito di stadio diminuiti drasticamente nell’ultimo decennio. No, bisogna strafare. Occorre far vedere al popolo assetato di giustizia sommaria che il mostro del momento (l’ultras oggi, l’immigrato domani, il raver dopodomani) è stato preso per il collo e decapitato. Lo hanno chiesto a gran voce certi giornali, lo ha dovuto fare la politica.

E così il divieto si conferma l’unico – anacronistico – mezzo a disposizione di tutti i Ministri, di tutti gli Osservatori, di tutti gli addetti ai lavori. Sicuramente il più comodo. Quello su cui neanche c’è da ragionare. E allora due mesi siano! Un lasso di tempo su cui forse nessuno potrà intervenire. E su cui anche il mondo ultras, nella sua interezza, dovrebbe cominciare a riflettere. Appurata l’incapacità di far fronte comune e assodato che per cultura, storia e fatti non siamo un Paese in grado di formare una rete atta ad opporsi a simili abusi, bisognerebbe quantomeno alzare la voce nelle realtà locali. Farsi sentire, controbattere. Far capire magari anche ad una persona su centomila quanto lo strumento del divieto sia inutile, iniquo e controproducente.

Aprire un confronto, anche un sano scontro, con l’altra parte della barricata. È l’unica strada possibile. E non per divenire santi o passare per ciò che gli ultras non sono (“né santi, né criminali” diceva un vecchio striscione foggiano). Ma per uscire dalla bolla comunicativa in cui spesso ci si trincera. Per non parlarsi addosso e per conquistare anche un solo centimetro dei propri diritti.

Non ho mai amato gli slogan collettivi, eppure ancora oggi ritengo che il famoso “Leggi speciali? Oggi per gli Ultrà domani per tutta la città” sia stato tristemente lungimirante. Basti pensare a tutti i provvedimenti traslati dal calcio alla vita civile (Daspo urbano docet) e immaginare un mondo utopico, in cui il laboratorio sociale stadio finisce per morire (non accadrà, fa comodo!) e in cui tutta la pletora di restrizioni passa tout court nella vita quotidiana. Forse avverrebbe quasi in modo silente, tanto ci si è abituati. Perché, allora, non riprendere un pochino quello spirito ribelle che dovrebbe guidare un movimento di aggregazione giovanile come quello del tifo? Perché non agire sulla comunicazione, invece di starsene zitti, in un angoletto a raccogliere i cocci?

Due mesi di divieto altro non sono che la punta di un iceberg che ogni domenica affonda le proprie radici glaciali nelle divisioni inferiori, dove viene spesso e volentieri vietato l’impossibile. Dalle gare con poche centinaia di spettatori a quelle tra tifoserie gemellate. Dalle partite di cartello a quelle di hockey su pista o di pallacanestro. E suonerò pure come un disco rotto, ma è inaccettabile non indignarsi davanti a tutto ciò. Perché rappresenta la palese volontà di inibire e distruggere uno spazio aggregativo, oltre che il rifiuto di fare ordine pubblico ed espletare normalmente i compiti per i quali lo Stato elargisce i propri fondi.

Prima di questa partita il mio pensiero – ormai chiodo fisso – è all’ennesimo atto di opportunismo e sciacallaggio nei confronti del tifo organizzato. Nessuno fa apologia della violenza, si vuol solo ciò che spetta: esser trattati da normali cittadini.

LA PARTITA

Quella tra Roma e Fiorentina è una sfida che ritengo sempre molto interessante e ricca di spunti da un punto di vista prettamente ultras. Si affrontano due tifoserie passionali, fedeli e che malgrado i risultati sportivi quasi sempre al di sotto delle aspettative, hanno un modo di vivere il calcio e la curva quasi liturgico. Un fideismo che affonda le radici nelle rispettive appartenenze cittadine. Ed è ovviamente diviso da una rivalità ormai quarantennale.

Si gioca per il posticipo della diciottesima giornata del massimo campionato e l’Olimpico registra il tutto esaurito con circa seicento tifosi provenienti dal capoluogo toscano. Voglio cominciare proprio da loro e da una piccola critica, dal punto di vista numerico. Negli ultimi anni difficilmente le loro presenze hanno superato le 5-600 unità, al cospetto di una distanza tutto sommato esigua tra le due città. Ora, comprendo perfettamente che la trasferta di Roma non sia affatto delle più allettanti: ripetuta infinite volte, stadio bunker in cui ti costringono a disporti praticamente in fila indiana e prezzi dei biglietti spesso e volentieri tutt’altro che economici. Però da una tifoseria in buona forma come quella gigliata degli ultimi anni, forse mi aspetterei qualche numero in più.

Di contro va detto che anche stasera si confermeranno tra le migliori a livello canoro in Serie A. Tanti bandieroni e la sola pezza per i diffidati, come avviene ormai da diverse giornate – successivamente a una serie di provvedimenti piovuti sulla Curva Fiesole -, voce sempre in alto, tante provocazioni nei confronti degli avversari e diversi cori contro la presidenza Commisso. E come dargli torto? Un personaggio che lentamente si sta dimostrando sempre più lontano da quell’imprenditore audace e lungimirante apparso all’inizio della sua avventura, nonché un altro figuro che troppo spesso ha reso la Fiorentina un supermercato per i grandi club del Nord, non restituendo in cambio neanche una piccola soddisfazione sportiva.

Di contro c’è una piazza, quella romanista, che dimostra ancora tutto il suo entusiasmo e la sua voglia di seguire da vicino la propria squadra. Se in più di un’occasione sono stato critico con l’ambiente e il tifo un po’ discontinuo della Sud, stasera va dato atto al cuore del sostegno romanista di aver sfoderato una prestazione davvero importante. Aiutati da un nuovo coro partorito dai Fedayn, i romanisti hanno a più riprese coinvolto anche parte delle tribune saltando, sventolando e cantando. Dando vita a un ambiente vivace e frizzante, che – qualora ce ne fosse bisogno – ha descritto appieno il sapersi entusiasmare da parte di una tifoseria che non va certo dietro a successi e trofei, ma che vuole come unica ricompensa alla propria fedeltà una squadra battagliera e arcigna.

In campo sono gli uomini di Mourinho a spuntarla grazie alla doppietta di Dybala. Tre punti pesanti che permettono ai capitolini di rimanere aggrappati al treno Champions, mentre i viola ora ripongono le proprie speranze nei percorsi di Coppa Italia e Conference.

Finisce con il consueto Grazie Roma e con lo stadio che continua a cantare sulle note del nuovo coro anche una volta varcati i cancelli d’uscita.

Simone Meloni