Green Street Hooligans, uscito nelle sale nel 2005, divenne quasi subito un cult nelle curve italiane; certo non (solo) per questo ma quasi contestualmente cambiò sia il dress code (i vecchi bomber e anfibi furono soppiantati dalle più comode giacche Stone Island e The North Face e scarpe da ginnastica Stan Smith) sia la strategia dello scontro, non più cercato esclusivamente allo stadio ma anche fuori dal contesto domenicale, con gruppi che hanno preso a darsi appuntamento o tendere agguati in zone distanti dallo stadio e in orari diversi dal match.
Il mio viaggio in Inghilterra inizia pensando alle vicende delle firm di Millwall e West Ham descritte nella pellicola, con il desiderio, quasi spasmodico, di cogliere e indagare quelle differenze che rendono il tifo anglosassone così diverso da quello italiano.
Il Milwall, club fondato nel 1885, milita nel campionato di Championship, l’equivalente della nostra serie B. Spulciando sul web scopro che nonostante la modesta storia calcistica e l’anonimo campionato fin qui disputato, al The Den, impianto costruito nel 1990, mediamente sono presenti circa 17 mila spettatori, un’enormità se si pensa che Londra conta ben 13 club professionistici. Tutto ciò mentre in Italia, “le strisciate” delle grandi metropoli hanno offuscato qualsiasi progetto calcistico alternativo, attirando su di sé anche le simpatie delle aree confinanti o dell’intera penisola. Il calcio d’Oltremanica ha quindi mantenuto un forte radicamento con i quartieri: la “gente del posto” è stata capace di resistere alle sconfitte o al richiamo del blasone. In Italia, se nasci a Sesto San Giovanni o anche a Monza molto probabilmente tiferai per il Milan o l’Inter, ma se invece nasci a Isle of Dogs sceglierai inevitabilmente il Milwall piuttosto che il blasone di Arsenal o Chelsea.
Parto da Hemel Hempstead, città di circa 80 mila abitanti alle porte di Londra, con primo step a Euston Station e di lì fino a London bridge dove prendo il treno che mi porterà fino all’ultima fermata, South Bermondsey Station, un’anonima stazione nascosta dalle foglie ambrate degli alberi londinesi dove ad attendere il flusso di tifosi del Millwall ci sono i primi poliziotti con le loro pettorine gialle d’ordinanza, che a primo impatto mi sembrava fossero steward.
Pochi passi a piedi e mi trovo immerso nello stadio dei padroni di casa; stento a crederci che l’accesso sia così immediato e facile ma che soprattutto non ci siano zone di prefiltraggio, come invece avviene in qualsiasi stadio italiano. Saranno gli anni di militanza in Italia ma ho difficoltà a credere che sia tutto così bello e semplice, per cui ho il tic di controllare sempre il mio passaporto perché sono sicuro che da un momento all’altro qualche addetto al servizio d’ordine vorrà conoscere la mia identità. Cosa che chiaramente non avverrà mai.
Cammino tra i tifosi del Millwall impegnati a bere e mangiare, da un momento all’altro sono sicuro che mi imbatterò in Tommy Hatcher, il “major” del Millwall della succitata pellicola. Riesco a circumnavigare lo stadio fino ad arrivare al mio “gate” il 28 dove prendono posto le varie firm di tifosi del Millwall. L’ingresso ha del romantico, se mi si permette l’abusato termine: nessun tornello di ultima generazione, scanner facciali o chissà quale altra diavoleria come quelle che cercano di implementare dalle nostre parti; solo una porticina piccola e stretta, davanti gli steward che non si preoccupano neanche di controllare il borsello della mia macchina fotografica, probabilmente perché a posteriori il sistema di controllo è talmente efficace da far desistere chiunque dall’introdurre oggetti contundenti. Ho il tempo di sorseggiare una bella bionda, accompagnata dal famoso “pie” (tortini di pasta brisè o sfoglia ripieni di carne di manzo e poi cotta con rognone, carote, cipolle e spezie).
Finalmente salgo i gradoni per immergermi nell’atmosfera del The Den, da questo momento smetto di usare la mia macchinetta fotografica, chiedendo a mio cugino di scattare qualche foto con il cellulare; sono in territorio straniero e non vorrei passare anch’io per il giornalista invadente, come lo Yankee Matt di Green street hooligans. Quando mancano pochi istanti all’inizio delle ostilità, parte come sottofondo London Calling dei Clash; da qui tocco con mano la differenza di approccio alla partita: se in Italia ormai il prepartita è diventato uno spettacolo hollywoodiano, da queste parti l’intrattenimento mantiene una forte valenza “territoriale”; da noi Elodie, qui dei mostri sacri come i Clash.
Le squadre scendono in campo con gli spalti che partono con il loro tifo, caratteristico e diverso dal nostro, dai cori fino ad arrivare persino al “gesticolare”: noi invitiamo gli avversari a farci il corrispettivo locale del “blowjob” qui invece li si biasima per essere dei “wanker”. Provo a partecipare al tifo, qualche coro riesco persino ad intonarlo, dal famoso: “no one like us, we don’t care, we are Millwall, super Millwall, we are Millwall from the Den”; al più irriverente: “your sister is your mother, your brother is your father” che cantato alle nostre latitudini magari avrebbe sollevato un polverone, incapaci come sono i nostri media di cogliere la sottigliezza fra goliardia, forse persino cattivo gusto e reati veri e propri.
L’avversario è il Preston North End Football Club, fondato nel lontano 1880, società con sede nella città di Preston appunto, centro con circa 120 mila abitanti a pochi km dal confine con il Galles. Sono circa 600 i supporter al seguito, tanti vista la distanza e la classifica deficitaria. Anche loro provano ad incitare gli undici in campo, ma come per i dirimpettai il sostegno non è continuo: in Italia l’incitamento è una missione, faticosa tra l’altro perché costante per tutti i 90 minuti e che deve prescindere dal risultato del campo, un copione da recitare che rende poi la curva il luogo principe dove vivere diversamente la partita; in Inghilterra invece il registro cambia, il gioco in campo è condizionante, nessuno si prende la briga di guidare la gradinata, tutti guardano la partita e le spalle al campo vengono voltate soltanto durante l’intervallo.
Quando l’arbitro fischia la fine delle ostilità, lo stadio si svuota lentamente e tutti ritornano alla propria vita, c’è chi lo fa salendo su un taxi e chi prendendo di nuovo il treno.
Il mio viaggio conferma ciò che avevo sempre pensato del modello inglese, sia per quanto riguarda la gestione dell’ordine pubblico, con clima più disteso, che per quanto riguarda il tifo, meno costante. Certo, ho assistito solo a 90 minuti che possono essere un’eccezione piuttosto che la regola, ma alcuni tratti sono talmente forti da indurmi a credere che le partite siano sempre vissute così, almeno dalla seconda divisione in giù; dagli ospiti che non fanno il loro ingresso nel settore a loro dedicato in corteo “trionfale” come invece gli italiani amano fare da qualche tempo, fino ad arrivare agli inutili teatrini di fine partita con le squadre “obbligate” a salutare i propri beniamini, con i volti dei giocatori provati dalla partita che lasciano ben intendere che, potendo, scapperebbero subito negli spogliatoi. Non esiste però un modello migliore, banalmente esistono stili diversi che rispecchiano culture e modi di approcciarsi secolari, perché se è vero che noi siamo un popolo di poeti e attori, spesso sconfinando nella vanità, lì probabilmente il tifo rispecchia un’identità fatta di sostanza che non ha bisogno di teatralità.
La partita è finita da un’oretta e dopo aver nuovamente circumnavigato lo stadio ,insieme ai miei cugini, che per l’occasione sono stati costretti a farmi da Cicerone, salgo sul taxi, questa volta direzione Londra Nord con in bagagliaio diversi spunti di riflessione.
Testo di Michele D’Urso
Foto di Michael Hall