In età adulta s’è spinto sin nella tana del lupo: “a Trigoria con Baldini per concordare la promozione della Fondazione Gabriele Sandri sulle maglie della Roma”. Ha organizzato una mostra su Di Bartolomei: “col figlio Luca, in Piazza della Libertà, ripresa dalla Rai”. Ha incontrato la mamma di Antonio De Falchi: “le sue lacrime sono nel libro Cuori Tifosi”. Alla fiera letteraria dell’Eur s’è presentato con l’ex leader del disciolto Commando Ultrà Curva Sud: “per una Pax romana col figlio di Vincenzo Paparelli, a chiudere simbolicamente gli oltraggi sul razzo omicida”. E nell’ultima fatica, ha pure sciolto l’enigma della fusione capitolina del 1927 di Italo Foschi: “ricostruisco gli intrighi dell’operazione fascista prima di Campo Testaccio, ho colmato una grave lacuna storiografica sulla nascita della Roma”. Giornalista, storico, scrittore, autore di numerose inchieste sulle pagine scure del calcio italiano, Maurizio Martucci da oltre 20 anni racconta il fenomeno ultras da un’ottica insolita, con piglio non conformista erevisionismo documentato”. Ricollocata la verità sul sangue della Lazio versato da Gabriele Sandri, Vincenzo Paparelli e Luciano Re Cecconi (“tre morti assurde, infangate da odio e menzogne”). Da giovanissimo Martucci frequentò la Curva Nord, seguendo i primi passi del gruppo degli Irriducibili. E oggi, a 30 anni dalla fondazione, ne ricorda la nascita senza egoismi né personalismi – premette in quest’intervista esclusiva – ma solo per testimoniare uno spaccato della mia generazione”. Lo scrittore racconta:

Età adolescenziale, avevo 14 anni, la metà già trascorsi all’Olimpico con mio padre in Tribuna Tevere. Papà è un grande laziale: co-fondò la sezione Calcetto prima dell’arrivo di Fabio Cragnotti, erroneamente dato per primogenitore del Calcio a 5 biancoceleste. Si giocava su riconvertiti campi da tennis di terra rossa: nella squadra femminile passarono Betty Vignotto e Carolina Morace. Ma il mio chiodo fisso era la curva, più che essere il figlio del dirigente, ero ammaliato dal richiamo dell’orgia collettiva: giocavo a Subbuteo, scrivevo annunci su Supertifo, un mercatino delle pulci per scambi di foto e adesivi in tutta Italia. A 13 anni formai gli Eagles’ Supporters Sez. Valli, l’omonima zona dove sono cresciuto a Montesacro. Lo striscione era ai piedi della Nord in quel Lazio-Vicenza con Fiorini al cardiopalma. Entravo e uscivo dal campo per appenderlo sulle vetrate. Poi quel colpo di fulmine nel 1987 e il cambio di marcia senza santi né demoni”.

La nascita degli Irriducibili. Era il 18 Ottobre 1987, Lazio-Padova ….

Gli Irriducibili sono stati rivoluzionari, un laboratorio sperimentale di aggregazione sociale, fucina di originalità e trasgressione senza eguali. Ne sono certo: Pasolini se ne sarebbe innamorato, come il regista Segre girò ‘Ragazzi di Stadio’ nella Torino operaia del 1980. In poco tempo gli Irriducibili influenzarono l’intero panorama del tifo nazionale, cambiandone i connotati. L’azzardo etimologico nel nome urticante, l’aggettivo in uso dai media per etichettare l’ortodossia extraparlamentare: Irriducibili scritto a caratteri cubitali. I manifesti affissi sulle mura bianche del vecchio Olimpico. I fumogeni spiegati in cortina, stendardi e colori variopinti, torce accese come luminarie nel secondo tempo sfatando il tabù dell’ingresso calciatori. Tifo continuo per notti insonni passate con maleodorante vernice vergata su stoffa. ‘Chi è Arlecchino? Mister facce entrà! Noi vediamo solo biancazzurro’. E poi quel virgulto senso ribelle di sfida e la voglia spregiudicata di essere contro corrente che 30 anni fa anni modificò l’ossatura del tifoso semplice e spontaneo, calato in una dimensione attivistico-movimentistica per spalti da 12° protagonista…”

A cosa ti riferisci, Maurizio?

“Al motto ‘non diremo mai sì signore’, all’aspirazione di infrangere senza peli sulla lingua i preconcetti del perbenismo. Dobbiamo calarci nel contesto storico di quel 1987 per coglierne il nodo: eravamo a metà tra gli echi sibillini della contestazione anni ’70 e poco prima degli anni ’90, cioè a ridosso dell’inizio della mercificazione artificiosa dell’esistenza, l’era del nichilismo medianico e della globalizzazione apolide di cui oggi vediamo gli effetti narcotici in una società soporifera, spoglia di critica, giudizio e identità. Nel micro-mondo Lazio si vivevano gli anni di piombo, era una Lazio maledetta e malinconica: scandali, calcioscommesse e rischio bancarotta, Wilson e Giordano in galera, retrocessioni a tavolino, sei delle ultime otto stagioni in Serie B, il rigore beffa di Chiodi, spareggi per la Serie C, l’incubo pallottola sull’inerme Re Cecconi, la malattia di Maestrelli, il sangue di Paparelli in Nord… e poi …”

…poi, cosa?

“Costretti tra Barletta, Catanzaro, Taranto e Campobasso dopo che il ritorno in pompa magna di Chinaglia aveva fallito nell’originaria idea di riproporre la stagione folle del 1974. Ti sentivi diverso, eravamo diversi. Ecco, qui dentro, in questo vortice osmotico, nasce l’archetipo Irriducibili: arrabbiati, decisi e determinati, spavaldi nel dimostrarlo sempre e ovunque.

Ma il gruppo cominciò a far parlare di sé per episodi di violenza…

La violenza nel calcio esiste da quando esiste il calcio. Banale e retorico liquidare il tema in poche battute. E la violenza non può certo egemonizzare, offuscandolo, tutto quel sotterraneo fermento giovanile che negli stadi italiani ha alimentato passioni, aspettative e trascinamento senza eguali. La curva era come un rifugio per esuli in cerca di una patria perduta. La curva era come l’isola che non c’è: lì ci si sentiva come Peter Pan perché la curva offriva la possibilità di sognare ad occhi aperti, di vivere fuori dagli schemi, di toccare con mano un’alternativa che la società costruita sul boom economico non offriva perché illusoria, falsa e artificiale. Gli Irriducibili unirono il modello dei fans inglesi e il nonsense goliardico veronese in una marzialità mista anarchismo da strada e regolamentazione disciplinata, un fibrillante caos calmo apparentemente paradossale: aggregò ragazzi di ogni estrazione sociale in un gruppo trasversale e interclassista. Prima 20-50 elementi, poi una curva intera con la stessa sciarpa al collo.”

Hai ricordi di quel lontano 1987 di 30 anni fa?

“L’inesauribile carica di Antonio Grinta, un trascinatore, il fondatore del gruppo (suo il libro autobiografico ‘Anni buttati’). Poi la mimica ruspante di Goffredo Er Tassinaro, l’estro creativo di Renatino di Colle Oppio, i muscoli generosi di Angelo Maciste e Andrea Fiocchi, me lo ricordo in una trasferta amichevole in auto a Terracina nel 1989. Il gruppo si ritrovava il giovedì sera nella riunione di Monteverde, tra Piazza Ottavilla e Via Fonteiana. Avevamo una cantina a Piazza Ozanam, proprietà di un pasticcere del Portuense. Ci andavo con un motorino sgangherato insieme ad Armandino, più piccolo di me, la mascotte degli Irriducibili. Lì si decidevano le strategie per la domenica: gli slogan per striscioni di carta fodera rinforzata con lo scotch da pacchi, l’orario per la trasferta in treno con partenza Stazione Termini, i testi per la fanzine ‘Mr. Enrich’ fotocopiata in copisteria. Per primi, gli Irriducibili portarono i simboli di Roma eterna allo stadio: la Bocca della Verità e il Colosseo esultarono nella festa per il ritorno in Serie A del 1988, prima dei vernacoli di Belli e Trilussa sfoggiati in un derby successivo.”

Episodi che ti riguardano?

“Studiavo al S. Leone Magno, la scuola dei pariolini della Roma bene. Il Preside non mi sopportava. Invece della discoteca al Piper, a 14 anni me ne andai in treno a Bergamo, per una trasferta proibitiva affrontata con l’inconsapevolezza di chi non aveva nulla da perdere… e pensare che due decenni più tardi ci sarei tornato da conferenziere nella Festa della Dea, invitato proprio dagli ultras orobici! A 15 anni, invece, con la scusa di una vacanza in montagna a casa di un amico di Trento, in solitaria feci tappa a Serramazzoni vicino Modena, nel ritiro della squadra: non sapevo nemmeno dove dormire, pensavo solo al gruppo, anche d’estate. E poi la mia passione per le foto-tifo: a 16 anni escogitai con Antonio Grinta una risorsa per incrementarne l’autogestione. Nell’anno del Flaminio, stagione ‘89/’90, vendevo fotografie della tifoseria nella pancia della Curva Nord. Dietro ognuna, stampavo con timbro e inchiostro: ‘Gli Irriducibili non hanno finanziatori e non li vogliono. Acquistando questa foto contribuisci al vitale autofinanziamento del gruppo’. Rende la misura: spirito indipendente, etica e ricerca spasmodica di preservare purezza d’animo e libertà sotto ogni punto di vista, E poi la prima trasferta in aereo…”

Quale?

“All’epoca non si girava l’Europa. E grazie ad un mio parente tour operator, organizzai la prima trasferta in aereo della storia degli Irriducibili, abituati solo a viaggiare in treno: volammo con Alitalia per Cagliari. Fui criticato da chi la notte prima si era imbarcato su un traghetto da Civitavecchia con partenza sabato e rientro lunedì dalla Sardegna. Avevano ragione, la comodità imborghesisce e logora il nobile sacrificio…”     

Ma a quei tempi, gli Irriducibili erano in conflitto col mondo Lazio…    

“Non poteva essere altrimenti. Troppo diversa la mentalità di una realtà eterogenea e frammentata. Si cantavano cori irrisori sui ‘Lazio Club’, visti come un ospizio per anziani, manco fossero tifosi dell’altra squadra. Più che un concorrente, si vedeva negli Eagles’ Supporters un intralcio alla maturazione di una curva stanca, affetta da sindrome di appiattimento. In un Lazio-Barletta del 1988 ci fu la resa dei conti, una rissa tra gruppi con botte stile far west. Ma il nemico dichiarato divenne il Presidente Callleri, il ‘Salvatore’ del 1986 venuto dal Piemonte per fare impresa a Roma, reo di aver liquidato Fascetti, il Mister dei -9, senza nemmeno un grazie o una stretta di mano. Calleri da Alessandria incarnò l’anima di una dirigenza oculata ma senza cuore, interessata al profitto più che alla tradizione del simbolo, lontana dalla richiesta passionaria di una tifoseria romana abituata al mecenatismo casalingo e bonario, se vuoi anche stile Lenzini. L’alta finanza, il turbocapitalismo e la Borsa di Cragnotti non erano immaginabili e avrebbero ancor più destabilizzato l’ambiente, scompigliando ulteriormente il puzzle qualche anno più tardi…”

E la politica?

“Contrariamente a quanto si pensa, era volutamente tenuta fuori dallo stadio, almeno fino all’arrivo di politici in cerca di facili consensi e rastrellamenti elettorali dell’ultim’ora. Ne valeva del codice comportamentale del gruppo originario. Ci si diceva: vuoi fare politica? Vai in una sezione di partito, ma non farla in curva ….”

Capitolo repressione….

“Dopo il corteo con striscione spiegato nelle strade di S. Benedetto del Tronto, ripreso sul settimanale del Venerdì di Repubblica, si creò una teorema sul gruppo: brutti e cattivi, cani sciolti, più che bulli, teppisti senza scrupoli, ladri di polli. Certo, non c’erano collegiali di Oxford né verginelle delle Orsoline tra noi, ma sparare nel mucchio alimentò una reazione soffocante, una spirale a catena all’epoca inusuale”.

Ovvero?

“Andammo a vedere Italia-Olanda, un’amichevole della Nazionale: per i lavori di ristrutturazione dell’Olimpico prima di Italia ’90, lo stadio mostrava le tribune e solo la Curva Nord, demolita la Sud. Era la nostra casa, dovevamo esserci: contava la presenza. Forti di un bandierone bianco con ‘Mr. Enrich’ e cori per la Lazio, venimmo circondati da un cordone di Carabinieri: ci identificarono a fine gara sotto la Monte Mario, senza un plausibile movente di ordine pubblico. Lo stesso accadde a Napoli, quando non ci fecero entrare al San Paolo con la scusa dei biglietti esauriti: tutti fuori la Questura e poi identificati in tetri capannoni, con espulsione immediata sul treno. Pagammo l’anticamera di una schedatura di gregge orchestrata molti anni più tardi nell’operazione di grande controllo fatta passare come Tessera del Tifoso. Ma la repressione più dura arrivò nell’anno irregolare al Flaminio. Lì si avvertì come il piano sicurezza per i Mondiali ’90 avrebbe inevitabilmente colpito alla rinfusa i tifosi più caldi. Nacque l’idea dello sciopero unitario del tifo, tipo sindacalizzazione degli spalti: quell’oltranza di silenzio assordante fece molto parlare.”

Quasi 10 anni dopo esce il tuo primo libro, Nobiltà Ultras, cosa ricordi?

Avevo 23 anni, uscito dalla curva pensai di storicizzare la storia quasi centenaria del tifo organizzato della Lazio. Dopo un anno di lavoro uscì Nobiltà Ultras dal 1900, la prima e ancora oggi unica storia dettagliata e completa degli ultras biancocelesti, dai GABA del 1976 agli Eagles’ Supporters, dai primi Ultras del 1975 in Curva Sud fino agli Irriducibili. Il libro uscì nel 1996 come allegato a ‘La Voce della Nord’, la fanzine del gruppo. Lo presentai insieme ai ragazzi di curva con Chinaglia e Signori, riuniti per rinsaldare idealmente le bandiere oltre il tempo. Fu un lavoro antesignano, a quei tempi non c’era la cultura di storicizzare il passato in un libro per soli tifosi che raccontava le gesta dei tifosi stessi. Personalmente fu il mio primo banco di prova, poi – tra gli altri – seguirono le mie inchieste sui casi di Vincenzo Paparelli, Luciano Re Cecconi e Gabriele Sandri, il sangue della Lazio inutilmente versato. Fino all’ultima fatica uscita lo scorso anno, in cui ho svelato il mistero dello scudetto della Grande Guerra del 1915 e la genesi massonica del sodalizio fondato da Luigi Bigiarelli nel 1900.”

Cosa pensi sia rimasto dello spirito originario del 1987?

“Certo gli Irriducibili oggi ci sono ancora e sono tornati pure in grande spolvero. Però in 30 anni tutto è inevitabilmente cambiato, sembrano passati 3 secoli, tanta la velocità dei processi di trasformazione. Il calcio non ha poco o nulla del football XX secolo, se vuoi preservato tra alti e bassi almeno sino agli anni ‘80, cioè prima dell’irruzione del grande business e dell’avvento di manager dell’alta imprenditoria. Il calcio ha perso l’eternità del mito mobilitante: ha subito una mutazione genetica che ne fatto un fenomeno da baraccone, un giocattolo da entertainment come il football americano, quello delle majorette accanto al silente pubblico che applaude se lo indica il maxi-schermo. Altro che Trinca e Cruciani de noantri: ha perso la verginità negli scandali di scommesse cosmopolite e nelle proprietà passate ad investitori stranieri, lo spin-off di cinesi e statunitensi catapultati da holding multinazionali. Ha perso le bandiere nel divismo post-hollywoodiano di calciatori merce di scambio, gestiti da agenti senza scrupolo che dall’altra parte del mondo manipolano le sorti del club con opachi traffici milionari. Ha perso il romanticismo e il mistero dell’inviolabilità nell’occhio indiscreto di telecamere infiltrate persino negli spogliatoi. Ha perso il tifoso interclassista-nazional-popolare trasformato in un consumatore mordi e fuggi, l’acquirente di prodotti commerciali buoni per ogni occasione. E poi gli stadi, ridotti a fortezze blindate tipo carcere di massima sicurezza, laboratori di controllo delle masse per sperimentali legislazioni emergenziali permanenti, sul filo della costituzionalità”.

E quindi?

“Insomma, il calcio ha perso radici, identità e attrazione fatale, questo non è più Calcio e il tifoso non è più Tifoso!  Oggi è altro, privato del fascino della partecipazione spersonalizzata, ridotto a mero artificio trasfigurato in salsa globale. Si andava allo stadio la domenica di primo mattino, quando non c’erano neanche gli addetti all’apertura cancelli. Andavi a compiere la tua missione, appropriandoti del recinto territoriale, la vituperata tribù saggiamente tratteggiata da Desmond Morris: col calcio inflazionato di oggi, in qualunque giorno della settimana l’ingresso è a ridosso della gara, in spalti semi-deserti, che qualcuno vorrebbe ripopolare persino di comunità straniere. Il prodotto è just in time, televisivo, proprio come il ciclo di vita di un mercato orientato al marketing! “Uomo libero? No, tifoso!”, recitava circa 30 anni fa uno striscione in Curva Nord. Nel loro piccolo, se vuoi anche in maniera grezza, semplicistica e non edulcorata, gli Irriducibili anticiparono i tempi. Avevano capito verso quale direzione il sistema fagocitante stava remando per portarsi a strascico – in un limbo senza ritorno – l’entusiasmo ribelle di chi oggi fugge un ambiente irriconoscibile.”

Daniele Caroleo.