Dopo aver ricevuto come regalo di compleanno, da mio cugino, una gradinata in miniatura della mia tifoseria, è nata l’idea d’intervistare Luca Peis, che coadiuvato dal suo fedele amico e collaboratore Ivano Rossetti si riconosce dietro il progetto che accomuna questa loro passione: “IL ‘2’ FISSO – hobbisti militanti”. Inventore e maestro nell’ideazione, progettazione e fabbricazione di questi incredibili quanto splendidi manufatti, totalmente artigianali nel risultato finale ma al contempo dall’altissima e nobilissima attitudine artistica. Al di là dell’intrinseco fascino che tali produzioni possono esercitare su frequentatori di spalti e appassionati di mondo ultras e Calcio, va sottolineata l’assoluta vena artistica di Luca Peis, capace di andare al di là del tifo organizzato e dello sport pedatorio in genere, cui le sue opere sembrano indirizzate in prima battuta, per inserirsi nel solco della pop art più esemplare e geniale.
Quest’intervista m’ha dato il privilegio, interagendo con lui in maniera fitta, di conoscerlo ancora di più e apprezzarlo, oltre che dal punto di vista professionale, anche come persona. Pacato, estremamente gentile ed educato, sempre disponibile e con un carattere aperto e curioso. Luca è un “ragazzo” di 52 anni dall’animo nobile che nonostante la crescente popolarità – tam-tam interno tra gli appassionati, interviste e approfondimenti dedicatigli su decine di testate, addirittura un servizio televisivo mandato in onda da “TG1 Mattina” – non si crede mai arrivato e in lui ritrovo, forse perché lo rivedo un po’ anche in me, lo spirito più fanciullesco e incline ai sogni che niente più del Calcio e del tifo riescono a interpretare al meglio. Del resto, per mettersi a creare queste opere – di cui diamo ampio riscontro fotografico a far da corollario a questa chiacchierata – devi avere, per forza di cose, un bambino dentro che riesce ancora a guardare, emozionandosi ed emozionando, con occhi colmi di stupore e meraviglia, la parte più easy (che è anche la più bella) del mondo pallonaro. Conosciamo dunque Luca, che ha dato, nel suo piccolo, ulteriore lustro allo stile e al know-how che tutto il mondo riconosce e invidia al nostro amato Paese, in Curva e fuori.
Allora Luca, io e te ci conosciamo da qualche anno e tra le tante tue versioni, ti ho visto anche su un palco, seduto sopra uno sgabello in mezzo ad altri musicisti, capelli lunghi, posa da rocker ad offrire l’immagine di artista a tutto tondo, che trascende dai soli tuoi lavori ultras/calciofili. Puoi raccontare, a me e ai lettori di Sport People – prima di addentrarci nello specifico – che rapporto hai con l’arte in genere?
Ho sempre visto l’arte come un “luogo di riposo” dove poter lasciare fluttuare la mente e giocare con le proprie idee, creando un canale di comunicazione diverso da quello verbale, generato dalla fantasia e quindi lontano dal noioso rituale senza contenuto, dallo standard quotidiano. Essere creativi e fantasiosi è una funzione vitale imprescindibile per me. Nella vita di tutti i giorni, così come nel lavoro, ho sempre cercato una chiave per dare fondo alle mie capacità creative, creando un “personale palcoscenico” in cui sperimentare e valorizzare idee. Dipingere, creare musica, scolpire, organizzare eventi, cucinare, ma anche salire su un palco (che tu sia un musicista, un comico, un attore o un ballerino) permette a noi stessi di esprimerci, raccontarci, dando un senso alla nostra identità. Tutto questo genera vitalità, entusiasmo, emozioni, sentimenti: passi necessariamente dal contatto con te stesso, vivi frustrazioni, incontri difficoltà, cerchi di scoprire nel tuo cuore (nelle forme d’arte è fondamentale esplorare quello!) e nella tua mente l’intuizione giusta arrivando poi alla soddisfazione per il risultato ottenuto. L’arte è in fondo una metafora della vita stessa!
Puoi raccontarci del tuo primo “approccio” col Calcio? Quali i primi ricordi? Quando sei entrato per la prima volta in uno stadio? Riesci a ricordarne le emozioni che ti suscitò?
Una domenica mattina di oltre 40 anni fa la radio accesa in casa pronuncia un nome strano e quasi da fumetto: Zoff. Chiedo informazioni a mio padre, grande appassionato di Calcio e supertifoso della nazionale. Mi racconta chi è Zoff, poi mi scrive a penna rossa un biglietto con tutta la formazione della nazionale di quel tempo… e dopo Zoff arrivano Gentile, Cabrini, Benetti, Bellugi, Causio… Ecco che comincio ad appassionarmi, tanto che arriva il giorno della mia prima volta allo stadio. 19 novembre 1978, Inter-Lazio 4-0, esordio di Aldo Serena (con goal) in Serie A. Eravamo freschi di un ottimo quarto posto al mondiale d’Argentina, torneo che avevo seguito con curiosità alla tv (in bianco e nero!) grazie agli stimoli arrivati da mio padre. Ricordo benissimo la sensazione di meraviglia quando mi si spalancò davanti il prato verde di un San Siro infreddolito e pieno solo per metà. Le parole di mio papà: “Luca, ma la partita non la guardi?”, perché i miei occhi erano sempre rivolti al pubblico, alle bandiere, a quei tamburi picchiati con grinta e passione. Il primo boato dei tifosi al goal velocissimo di Beccalossi, gli alcolici mignon in libera vendita, i cuscinetti con il disegno del vecchio biscione: mi ricordo tutto. Poi però non sono diventato interista… A 8 anni ti sembra tutto magico, e il Calcio per i bambini lo è, ma anche oggi a 52 anni entrare in uno stadio mi restituisce la stessa adrenalina di quella prima volta, mi regala lo stesso stato di festa e beatitudine mentale, e, proprio come allora, il mio sguardo è ancora rivolto verso le bandiere…
Segui e tifi qualche squadra in particolare?
112 anni di storia altalenante, fatta di sogni solo accarezzati, qualche fallimento societario, diverse retrocessioni, campionati in bilico, poche luci e moltissime ombre. Il Monza è la mia squadra, Monza è la città in cui sono cresciuto, dove ho coltivato quelle amicizie che ancora oggi frequento. Dopo dozzine di campionati tra B e C (abbiamo visto anche la Serie D), ritrovarsi in Serie A non ci sembra neppure vero: oggi tifare Monza va quasi di moda ed è semplice “salire sul carro”, ma abbiamo vissuto anni veramente neri in cui molti hanno abbandonato la nave. Il vecchio stadio Sada ormai cade tristemente a pezzi ma i ricordi restano vivi e solidi, era un piccolo fortino in stile inglese dove ho cominciato a entrare a 12 anni, guardavamo la partita attaccati alla rete di recinzione e sentivamo il respiro dei giocatori. Qualche piccola gioia l’abbiamo vissuta anche al Brianteo e oggi in Serie A per noi è una continua festa, confrontarsi con le grandi è emozionante, i risultati ci confortano. Tifo ancora oggi con lo stesso entusiasmo di sempre, la salvezza è obiettivo alla portata, i giocatori ci sono, la piazza ha risposto bene: stiamo a vedere cosa succede, nel frattempo godiamoci un palcoscenico per noi insolito e ovviamente bellissimo.
Quali maggiori differenze riscontri tra il Calcio di quand’eri bambino e quello attuale? Al di là d’un forse scontato e un po’ inflazionato “nostalgismo” che inevitabilmente un po’ accomuna tutti quelli della nostra generazione (quelli che son stati bambini e ragazzini negli Anni ’70/’80), cosa ti piace di più del football d’antan e cosa meno di quello attuale?
Negli anni ’70 e ’80, il Calcio (all’epoca gioco del pallone) era genuino, non drogato da interessi enormi e da logiche di puro marketing. Le maglie sudate e sporche di fango erano numerate da 1 a 11 ed erano 2 per l’intera stagione, una da casa e una da trasferta. Potevi aspettare i calciatori fuori dagli allenamenti per un autografo e un contatto vero. Le capigliature erano poco curate e si vedeva anche qualche simpatica pancetta di troppo. Oggi i calciatori sono attori di Hollywood, intoccabili e inavvicinabili, il campo è una passerella dove sfilano, belli e invincibili come un dio greco. Il pallone non è più protagonista, il sogno del bambino che giocava per strada ore e ore emulando il suo idolo, oggi si trasforma in un prodotto artefatto e patinato, caratterizzato da fama, successo e ingaggi fuori da ogni logica. E poi tatticismi esasperati, Calcio velocissimo, un progresso tecnologico che ha tolto tutto il fascino. I talenti, come le bandiere… non ci sono più. E noi ci affezioniamo sempre meno a quelli che un tempo erano chiamati “beniamini”.
Cosa pensi del mondo ultras italiano?
Anche il mondo Ultras è profondamente cambiato rispetto al passato. Una splendida sottocultura, con linguaggio e regole proprie, che valgono ancora oggi ma sono state “contaminate” dall’evoluzione del Calcio stesso. Interessi economici maggiori anche nelle Curve italiane, dove tra l’altro si è persa un po’ di creatività e dove si vive a volte di luce riflessa, considerando che il modello italiano, in passato, ha fatto scuola in tutto il mondo. Sta diventando sempre più standardizzato e si è perso un po’ quel senso di appartenenza, a mio parere anche l’individualismo crescente nella nostra società ha giocato contro il movimento riflettendosi fortemente nelle Curve. Basti pensare alla frammentazione della tifoseria in decine di gruppi differenti, spesso in contrasto tra loro, ognuno con il proprio stendardo e con le proprie regole. Oppure ai gemellaggi, un tempo numerosissimi e oggi sempre più rari (anche se le amicizie di quella che mi piace chiamare “vecchia guardia” restano salde e forti nel tempo, ad esempio Bari/Salerno o Francoforte/Bergamo). E poi, la forte repressione. Trasferte vietate per motivi a volte assurdi, coreografie non concesse, partite a orari spesso inconciliabili con il lavoro, regole sempre più restrittive a cui devi adeguarti. Nonostante questo, l’ultras resta la parte buona del Calcio, fa sacrifici, macina kilometri per la sua maglia, soffre, perde la voce, si rende protagonista di azioni bellissime nel sociale, spessissimo dimostra solidarietà e vicinanza ad altre tifoserie, al di là delle rivalità e dei colori.
Quali i gruppi, tanto di massa quanto i piccoli, che ti hanno maggiormente impressionato nel corso degli anni?
Ci sono gruppi che ancora oggi per me restano monumenti. Penso al CUCS Roma, ai Granata South Force guidati dal Siberiano, agli UTC Doria, senza dimenticare i loro cugini, quando erano Fossa dei Grifoni, splendidi, compatti, sempre numerosissimi. Tanti sono i gruppi che hanno insegnato a tutti come si faceva il tifo, ad esempio restavo affascinato dalla Curva Maratona degli Anni ’80, un punto di riferimento che segnò il solco per fede e attaccamento. Ci sono ancora bellissime realtà in provincia, vedi Taranto e Palermo, con un tifo caldo e passionale che merita presto di tornare sotto i riflettori.
Secondo te, in uno scenario profondamente e fisiologicamente mutato dal passare dei decenni: il movimento ultras continuerà a esistere o sarà destinato a estinguersi? O peggio: a cambiare ulteriormente, stravolgendo completamente se stesso, tanto da perdere in toto anche quel che resta della propria identità, diventando la caricatura macchiettistica del proprio passato?
Il puro business del Calcio moderno è lontanissimo dalla mentalità del tifo organizzato, che non si identifica certo come “cliente” ma fa di tutto per mantenere la propria identità. Da questo punto di vista gli ultras godono di ottima salute, vista la battaglia quotidiana che combattono per cercare di sopravvivere a un sistema che fa di tutto per escluderli (basti pensare al caro biglietti anche nei settori ospiti). La pandemia ha dimostrato che il Calcio non può esistere senza i tifosi, quella cornice intorno al campo è elemento fondamentale dello spettacolo, e nello specifico i gruppi dietro uno striscione ci sono ancora, mossi dalla fortissima passione, da ideali ancora solidi, da concetti quali resistenza, fratellanza, unione, fedeltà. Vero, sembra un movimento anacronistico rispetto alla contemporaneità, in netto contrasto con la corsa sfrenata dell’azienda Calcio verso l’esclusione del romanticismo e della genuina passione. Ma l’ultras, per indole, resiste e non molla mai, dovrà certamente adattarsi alle regole come sempre ha fatto, cambiando pelle, rimanendo però il vero protagonista, come sempre è successo nel corso degli anni. Magari un po’ “fuori dal tempo”, ma pur sempre presente nonostante tutto. “C’ero, ci sono e ci sarò”, uno dei cori più belli che ho sentito in uno stadio.
Come ogni attività per la quale è logicamente previsto un corrispettivo in denaro, immagino anche che la forbice delle reazioni possa andare dal riconoscimento economico e morale per la competenza e il lavoro prestato ad una diffidenza, per lo più esterna al committente, da parte di chi ci può (e vuol) vedere in tutto ciò un tentativo di speculazione. Lo hai riscontrato effettivamente? Come rispondi o risponderesti a obiezioni di questo tipo?
Con le nostre realizzazioni cerchiamo di rendere felici le persone che in quella rappresentazione ci chiedono di rivivere un momento importante della loro vita, “cristallizzato” davanti ai loro occhi. Di fatto siamo gli esecutori di una richiesta, gli artigiani che mettono in opera un desiderio specifico di chi ci sta commissionando il modello.
Il valore del manufatto artigianale è decisamente più alto del suo prezzo, i margini sono realmente molto bassi ed è onestamente molto difficile vederci una speculazione.
Riscontriamo sempre buon apprezzamento perché evidentemente passa quel concetto di “romanticismo” che ci viene riconosciuto in quanto artigiani e appassionati di tifo.
Speculare significa letteralmente anche approfittare con pochi scrupoli, dunque siamo del tutto estranei a quel concetto: chi ci chiede l’opera comprende molto bene che l’essenza e il fine del nostro lavoro vanno a braccetto in una direzione diametralmente opposta…
Veniamo ai tuoi lavori. Sei stato, da bambino o ragazzino, un appassionato di soccer table, Subbuteo, biliardino e similia?
Da bambino, a cavallo tra i ’70 e gli ’80, giocavo a Subbuteo con l’amico del piano di sotto. Poche squadre, un panno rovinato e regole più o meno inventate. Spesso giocavamo la domenica, e a far da sottofondo a quelle partite infinite, la radio posizionata dietro una delle due porte con “Tutto il Calcio minuto per minuto”. Vivevo a Monza, c’era un negozio di giocattoli (si chiamava “Inferno”) non propriamente adatto a tasche umili, e in vetrina era posizionato un intero stadio con pubblico, addetti al campo e riflettori accesi: uno spettacolo per gli occhi di un bambino sognante che sostava ore davanti a quella vetrina. Conservo gelosamente ancora oggi la mia prima squadra di Subbuteo, un’Inghilterra fatta a pezzi dal tempo e dai tanti traslochi, con numeri dipinti malissimo e sistemazioni grossolane con colla totalmente inadatta allo scopo. Guai a chi me la tocca!
Come e quando è scoccata la scintilla che t’ha portato a creare queste tue opere tanto sui generis quanto geniali? Ricordi il tuo primo “lavoro” (inteso come primo manufatto) in tal senso? Raccontaci…
Era appena cominciato il primo lockdown, stadi vuoti. Anche il settore in cui operavo all’epoca, il catering, era stato fortemente penalizzato. Quel tempo libero andava valorizzato e riempito con una forte passione. “Chi vive ogni domenica sui gradoni, siano essi di Serie A o di categorie regionali, ha bisogno in qualche modo di ritrovarli”: questo ho pensato. Non avevo nessun tipo di conoscenza sui materiali, sulle tecniche, sugli strumenti da utilizzare: davanti a me si spalancava un mondo, quello del modellismo, vastissimo e totalmente sconosciuto. Così, insieme al mio vecchio amico Ivano abbiamo cominciato a costruire un primo, rudimentale modellino. Senza alcun tipo di tecnica o capacità, ma mossi soltanto dal ricordo di quel favoloso stadio in vetrina, diamo vita a un’idea originale cercando di riprodurre uno spicchio di tifoseria del Monza, la nostra squadra. Era bello pensare che qualcuno potesse avere in casa un modellino della “sua” Curva, la riproduzione in piccolo di una passione, di una vita con gli amici, per rivivere il ricordo di tante trasferte o semplicemente per il gusto di possedere un manufatto artigianale così particolare. Il risultato del primo modellino fu oggettivamente scarso, ma non ci siamo arresi davanti alle prime difficoltà ed eccoci qui dopo quasi 3 anni a inventare pose nuove, perfezionare le grafiche, dipingere i tifosi con dettagli sempre più curati.
Nel creare questi lavori, ti senti unico, nel senso di stare realizzando qualcosa che fai soltanto tu e che non trova eguali? Faccio questa riflessione: da un lato è bello sentirsi “unici” perché nessun altro fa quel che fai tu… Dall’altro però potresti anche soffrire un po’ di “solitudine” nel constatare di non poterti confrontare o “sfidare” con alcuno; la “concorrenza”, intrinsecamente, porta a migliorarsi nel cercare di far meglio degli altri. Come rimedi a ciò e dove trovi gli stimoli per andare avanti?
In Italia e in Europa ci sono veri e propri “mostri” del modellismo e del fai da te, tanti appassionati realizzano a mano stadi interi molto curati in ogni particolare, con riproduzioni fedelissime della struttura stessa e dell’esterno stadio. La loro attenzione è rivolta maggiormente all’aspetto architettonico e viene curata meno la parte emozionale, quella relativa ai settori da riempire con gli spettatori. Io ho cercato di dare quell’emozione che mancava: tifosi in pose diverse, bandiere e stendardi, senso di movimento in gradinata, colore. Ho chiesto e ricevuto consigli da autori di “grandi” realizzazioni, perché in questo settore non vedo competizione ma solo tanta voglia di divertirsi e di stupire. In un certo senso è come se tutti remassero nella stessa direzione perché il buon risultato di uno solo diventi motivo di orgoglio e ammirazione per tutta la “comunità”. Nessuno è avaro di suggerimenti, ci si scambiano pareri e pur trattandosi di lavori diversi (che si parli di una struttura stadio riprodotta fedelmente nei suoi aspetti architettonici o di una mia gradinata con ultras in azione), gli ingredienti comuni restano sempre quelli: la ricerca di un dettaglio in più, la voglia di emozionare e perché no, di emozionarsi. Essere l’unico (o uno dei pochi) che realizza modelli di questo tipo è certamente motivo di vanto, chi si avvicina a questo mondo e mi chiede consigli li riceve, perché è bello condividere esperienza e scambiare suggerimenti per migliorare reciprocamente i risultati. Lo stimolo vero arriva dal tifoso che commissiona la gradinata: non va deluso, le sue aspettative vanno soddisfatte, quindi ci si mette tutto il cuore possibile, l’attenzione, la dedizione necessaria per rendere unico quel modello, che per quel tifoso rappresenta la passione di sempre, un ricordo, un amico di Curva che non c’è più, una trasferta, una fase particolare della sua vita. Ogni modello che cominciamo a realizzare deve essere migliore del precedente. Questo ci diciamo sempre io e il mio amico Ivano: un passo alla volta, ma un passo avanti.
Racconta per grosse linee, ai lettori di Sport People, tutto il “processo produttivo” dal momento in cui ti viene commissionato un lavoro fino al momento in cui imballi il prodotto finito e lo spedisci al committente.
Il processo produttivo è decisamente lungo e complicato. Individuato il modello, si lavora sulle grafiche, cercando di riprodurre il più fedelmente possibile gli stendardi presenti nella gradinata reale o quelli richiesti dal cliente, che può personalizzare a suo piacimento l’intera scena. Quelle grafiche, una volta approvate, vengono stampate e applicate su piccole lastre di stagno sottile, materiale adatto a essere modellato per rendere al meglio l’effetto “sventolio” della bandiera. Nel frattempo, si dipingono a mano i tifosi (questa è la fase più lunga del processo), si taglia il legno a misura per creare la gradinata, lo si dipinge e si applicano le bandiere alle miniature, creando prima una simulazione perché la scena, a fine lavoro, sia più armoniosa ed equilibrata possibile. Parte l’assemblaggio vero e proprio: armato di pinzette da modellismo, colla speciale e sottile carta vetro, si cominciano a posizionare i tifosi in gradinata, cercando di alternare le pose e i colori facendo in modo che le miniature siano fissate saldamente, per affrontare l’eventuale spedizione e reggere nel tempo. Posizionamento della balaustra (o inferriata) sul fronte, corredata dal suo striscione, e applicazione delle grafiche sulla teca (quella che fa da sfondo ai tifosi e quella del retro teca) completano il processo. È il momento degli ultimi dettagli: lanciacori (spesso con megafono), poliziotti, steward, fotografi, cameraman. Il lavoro è quasi concluso, qualche scatto al cliente aspettando speranzoso un suo riscontro positivo, qualche scambio di chat e l’imballaggio del modello, se possibile a prova di bomba nucleare! E si riparte, con il prossimo modello… Non pensavo fosse così lunga la lavorazione, me ne sono reso conto soltanto descrivendola!
Nella fase realizzativa: quali le maggiori difficoltà che riscontri? Raccontaci; e non essere avaro in particolari e aneddotica, siamo lettori molto curiosi…
La fase decisamente complicata è quella dell’assemblaggio. I tifosi vanno posizionati con una certa logica e con il gusto necessario per ottenere un risultato finale armonioso e che presenti il giusto impatto visivo. I vessilli dovranno essere visibili in modo molto chiaro, quindi studiamo anche l’inclinazione delle aste e il giusto sventolio delle bandiere. Quando dobbiamo inserire in un modello centinaia di tifosi, inevitabilmente avremo delle pose che si ripetono: da qui nasce l’esigenza di utilizzare spettatori dipinti in maniera differente, lontani tra loro, fissati al legno in modo stabile e duraturo. È il valore aggiunto di un manufatto artigianale, unico e irripetibile, non riproducibile su larga scala, dove nessun passaggio è “meccanizzato”. Spesso chi ci commissiona il modello vuole “rivedersi” insieme al suo amico di trasferte, oppure chiede di riprodurre la sua famiglia, e cerchiamo sempre – per quanto possibile – di accontentare le richieste: ci è stato richiesto di riprodurre il grande Romeo Anconetani a bordo campo (con tanto di scatola del sale!) sotto la gradinata dei pisani, un sindaco con fascia tricolore, speaker e giornalisti più o meno conosciuti, una famiglia intera composta da padre, madre, nonno, zio e 4 figli piccoli! Una volta un tifoso ci ha mandato la foto della sua Curva in cui anch’egli era ritratto, in quell’occasione aveva il braccio ingessato e lo abbiamo riprodotto così, con tanto di firme degli amici sul suo gesso! Gli aneddoti non mancano, a volte le richieste sono davvero bizzarre, facciamo sempre di tutto per soddisfarle, e ci divertiamo tantissimo anche noi…
Come anche tu asserisci, ogni forma d’arte è un modo per esprimersi, dunque una maniera per veicolare un messaggio, un'”urgenza” che l’artista sente di volere e dovere condividere col mondo. In definitiva – attraverso la tua arte e le tue opere, assodata l’intrinseca bellezza che ogni vero appassionato di football e tifo riscontra nelle tue creazioni – qual è il messaggio, il lascito che vuoi tramandare a chi ti segue e interagisce con te e questa tua passione?
La passione non va mai ignorata o trascurata, va difesa a qualsiasi costo. Le piccole e grandi passioni sono il motore della nostra vita, è un peccato mortale rinunciarvi. Nei modelli cerco di far rivivere la passione che caratterizza i gradoni di uno stadio, ma se nel farlo non userò tutto il mio cuore, essa non trasparirà mai. Partiamo dal presupposto che non è soltanto una rappresentazione visiva di uno spicchio di gradinata, ma è un modello in cui il tifoso ricorda una trasferta, uno striscione dipinto a spray con gli amici, è un oggetto attraverso cui mentalmente ricanta un vecchio coro o rivede quel goal al novantesimo di tanti anni fa. Per lui è un momento importante della sua vita. Quindi devo essere io il primo committente di quel modello. Sono io che ho richiesto quella gradinata, con quei dettagli. Sono io che per primo devo emozionarmi nel guardare il risultato finale di quello che ho realizzato. Come potrei pretendere di suscitare emozioni se io per primo non mi emoziono durante la creazione e non metto passione in quello che poi voglio trasmettere? Il complimento più bello è sempre lo stesso: “si vede che ci metti il cuore”. Quando mi viene detto, il mio obiettivo è raggiunto. Sentire i ragazzi che dicono: “quando ho aperto il pacco mi sono emozionato, mi vengono i brividi ogni volta che guardo la gradinata” è segno che quella mia passione traspare, il cuore che ho messo per realizzare quel modello ha regalato felicità a qualcuno, e quel qualcuno ha “sentito” che il lavoro è stato realizzato come se fosse per me stesso. Impagabile.
Mi dicevi, privatamente, di non stare attraversando un buon periodo della tua vita per tutta una serie di ragioni personali. Quanto può essere salvifico e taumaturgico avere una passione come la tua e quanto c’è di riscatto umano in quello che fai e nelle ore che dedichi al tuo “lavoro” ogni giorno?
Realizzare qualcosa di artigianale fa aumentare l’autostima, perché rendere tangibile una cosa che non c’è, crearla da zero e vederla terminata, ti fa sentire davvero bene. Sei stato attivo, concentrato, e rilassato durante tutto il processo di realizzazione. I problemi restano fuori, ti isoli completamente con l’unico scopo di arrivare all’ultima miniatura da posizionare, dunque a concludere l’opera avendo dato il massimo delle tue possibilità; il processo realizzativo diventa totalizzante. Risolvere un imprevisto, ideare nuove pose di tifosi da inserire nel modello, disegnare le grafiche migliori: tutto questo è decisamente terapeutico e regala un senso di benessere a mente e spirito. Inoltre, scopri l’importanza di arricchire il tuo tempo, facendo una cosa che ti rende fiero e gioioso per esserci riuscito! Altro fattore importante è quello di poter dare sfogo alla tua estroversione e creatività, con un coinvolgimento emotivo che appaga prima, durante e dopo la realizzazione! Nel periodo delicato che sto vivendo, questa attività costituisce un piccolo riscatto giornaliero per me stesso: raggiungere di volta in volta piccoli obiettivi ottenendo gratificazione immediata da parte dei tifosi che commissionano le opere è di certo un mezzo per sentirsi meglio, uno stimolo per superarsi ogni giorno e di conseguenza migliora umore, stato d’animo e giudizio su se stessi.
Se non fosse scoccata quella famosa scintilla che ti ha portato a realizzare i lavori per cui tutti adesso ti conoscono e apprezzano: cosa avresti fatto del tuo tempo? Come avresti passato le giornate? Credi che avresti comunque trovato un’altra forma d’arte per esprimerti?
Ho sempre avuto bisogno di esprimermi, fosse un hobby o un lavoro. Ho cantato nei club con la mia cover band per oltre 20 anni, terminata quella bellissima avventura ho creato un trio musicale con cui ogni tanto saliamo su un palco anche oggi, nel catering – il lavoro che ho fatto fino a qualche mese fa – ho sempre cercato di dare un tocco personale negli allestimenti, facendo possibilmente coincidere estro e gusto estetico (non sempre ottenendo il risultato sperato!). Mi sono sempre dilettato nella creazione fai da te, colleziono tantissime cose, leggo libri e guardo film, non mi annoio, ma il pallino degli spalti gremiti (per dirlo alla Sandro Ciotti) c’è sempre stato: erano anni che quell’idea mi girava in testa, fin da bambino mi divertivo a costruire rudimentali campi di calcio, improbabili sagome di calciatori in cartoncino, panchine con i mattoncini Lego… È stato sufficiente riprendere mentalmente quel filone, svilupparlo in una direzione più matura cercando, giorno dopo giorno, di renderlo sempre più credibile e professionale. Di certo il lockdown di due anni fa ha sviluppato un po’ di creatività in ognuno di noi, e personalmente ne ho approfittato cercando di valorizzare quello stop. “Giocare con i soldatini” a 50 anni non è reato, del resto lo scrittore George Shaw lo diceva già nel secolo scorso: “l’uomo non smette di giocare perché invecchia, ma invecchia perché smette di giocare”. Mai massima fu più azzeccata!
…quando si dice: la predestinazione! In chiusura: ti ringrazio, Luca, anche a nome di tutta la redazione di Sport People per il prezioso tempo che hai voluto dedicare a noi e ai lettori e nel farlo ti auguriamo sempre maggiori soddisfazioni e fortune: te le meriti tutte. Lascio a te chiudere questa chiacchierata, se vuoi ringraziare o salutare qualcuno o dire tutto ciò che vuoi…
Sono io che ringrazio di cuore te e la redazione di Sport People per questa opportunità, poter raccontare questa idea è motivo di orgoglio e grande soddisfazione. In un’epoca in cui siamo ossessionati dal contenuto digitale, ottenere riscontri e apprezzamenti sempre positivi per un manufatto totalmente artigianale – di fatto lontanissimo dalla realtà che ognuno di noi vive giornalmente tra social e tecnologia – è la molla che fa andare avanti, ma sempre con umiltà e cercando di migliorarsi ogni giorno. E così, anche attraverso le creazioni in miniatura, ci ritroviamo tutti… “su quei gradoni”. Mi sia concesso di mandare un abbraccio molto speciale al mio amico Ivano, senza cui questo progetto sarebbe franato appena dopo la sua nascita. Grande merito è anche il suo, ottimo pittore dalle grandi intuizioni, la parte “razionale” di questo duo, la spalla che a prescindere dagli aspetti puramente tecnici della realizzazione ti sostiene, ti supporta, e ti sgrida se necessario. Non posso chiudere se non ringraziando gli ultras di ogni città d’Italia, vero motore di questa idea, per avermi fatto innamorare del loro straordinario mondo!
Intervista realizzata da Luca Gigli