Riaffiorano lenti e nitidi i ricordi di giorni, aneddoti e momenti condivisi. Ritornano a galla prepotentemente, quasi a voler ricordare il segno lasciato da una persona nella propria esistenza. E una certezza: non dovrebbe mai finire tutto così presto, perché non si è mai pronti alla scomparsa di un amico. Alla partenza di chi è riuscito a incastonare magari anche un piccolo tassello nel frastagliato mosaico delle gioie e dei momenti che restano dentro. La morte non porta via la memoria, è vero, ma di sicuro dà un colpo terrificante alle proprie certezze e scava un piccolo solco in più nella zona debole del nostro cuore e della nostra anima. Perché ci si rende conto che davvero nulla è per sempre, che questo concetto non è solo una frase detta per edulcorare i momenti bui.
Triste quanto curioso il destino che nel giorno del tuo ultimo saluto, del tuo arrivo tra le bandiere e i fumogeni e del tuo passaggio davanti a quella casa dove tanti di noi hanno lasciato ricordi, vita vissuta e risate infinite, abbia voluto far giocare una partita del tuo Leone all’Olimpico. Ferocior ad bellandum, recita il motto impresso nel gonfalone comunale di Frosinone. Più feroci nel combattere. E tu lo sei stato fino all’ultimo, in una battaglia che, ahinoi, è stata ben più difficile e tosta di qualsiasi partita e di qualsiasi traguardo da conquistare sul campo o allo stadio. So che stasera ci saresti stato in quel settore e avresti cantato fino all’ultimo, oltre il risultato. Tu che i giallazzurri li avevi visti tra i dilettanti e in campionati anonimi della terza e della quarta divisione, presenziando quei campi polverosi e roventi, che caratterizzavano i gironi del Sud Italia. Magari avresti detto, orgogliosamente, che l’Olimpico di oggi era una bella passerella, dove però bisognava preservare proprio quello spirito combattivo e tignoso che il tifoso ciociaro aveva temprato in anni di battaglie campali. Ci hanno provato i tuoi concittadini, i tuoi fratelli con la sciarpa al collo. Ma prima ancora di provarci ti hanno onorato, con uno striscione e con un coro che è rimbombato forte e chiaro per buona parte dello stadio capitolino.
Il grande rimpianto e di non averti salutato degnamente. Di essermi piegato ai forsennati ritmi della vita e aver forse procrastinato troppo, inghiottito dalla mia esistenza. Ma sappi, caro Marco, che è stato proprio per gente come te che ho potuto iniziare a girare l’Italia e scavare non solo nel profondo della vita di curva, ma anche in tutto il contesto sociale che lo circonda. Oltre dieci anni fa ho intrapreso un percorso più casualmente che volutamente. Sconfinando nella provincia italiana e cominciando ad apprezzarne usi e costumi, oltre che le tradizioni del tifo organizzato. Il Matusa fu una delle prime “palestre” – come peraltro recitava uno striscione esposto in quel Frosinone-Crotone che sancì la prima, storica, promozione in A – e ovviamente tu la voce narrante di una storia che partiva da lontano, dalla tua famiglia. Seduti nella tua veranda a più riprese mi raccontasti di tuo nonno, che al vecchio Comunale ci lavorava come magazziniere e custode e che non poteva far altro che trasmetterti una passione rara, profonda, radicata nell’identità cittadina, prima ancora che sportiva. Quello stadio lo citavamo spesso, anche e soprattutto dopo il passaggio al Benito Stirpe. Nel sottolineare quanto questa società avesse lavorato bene e fosse all’avanguardia a livello nazionale, ricordavi sempre come il vecchio Matusa fosse una trappola appartenente a un altro tempo. A un’altra era geologica. E tu sapevi bene quanto l’anima della tifoseria ciociara vi fosse attaccata e imprigionata. Nei sogni ritornano vive quelle persone affacciata dai palazzi l’anno della prima Serie A, quelli arrampicati sulle costruzioni dietro al settore ospiti e quelli fatti entrare alla rinfusa tra la selva di controlli che non riuscivano mai a essere efficaci in un simile impianto. Per me il Matusa è Marco Gatto. E viceversa. Due entità imprescindibili che hanno scandito il ritmo e i ricordi di una comunità.
Di aneddoti ne avrei davvero diversi da raccontare, ma penso sia giusto che alcune cose rimangano chiuse nell’intimità di chi le ha vissute. Sebbene in questi anni spesso abbia avuto l’opportunità di narrare sfumature e sfaccettature che riuscivo a conoscere e intuire, aiutato da uno stuolo di personaggi conosciuti grazie a Marco e agli altri ragazzi che sempre mi hanno aiutato nella mia ricerca di usi e costumi locali. Dai ristoranti sperduti nella campagna e dai gusti antichi agli stornelli cantati e recitati in dialetto. Dalle Cantine Aperte alla Festa della Radeca. Evento, quest’ultimo, che fino a qualche anno fa abbiamo quasi sempre vissuto insieme, cominciando dal giovedì grasso. Davanti al classico piatto di fini fini, scambiando chiacchiere in leggerezza in quelle tavolate che sapevano di genuinità e umanità. Io che nella provincia ci ho sempre vissuto bene e quasi sempre ci ho trovato conforto, venendo dalla frenesia delle metropoli e da un suo modo spesso inanimato di vivere la quotidianità. Tanto divenne la passione per quelle montagne, per quei paesini della provincia e per i più sperduti anfratti, che sono riuscito a trasmetterla – a mia volta – alle persone che più mi sono state vicine.
Qualcuno ieri ha detto che senza di te la vita sarà meno bella. E, senza voler utilizzare la retorica in cui spesso si cade in questi momenti, non posso dargli torto. Perché girando la nostra scalcinata Italia, quando mi imbatto in icone parallele a quelle di Marco, in coscienze popolari, rimango sempre ammaliato e cerco di carpirne il massimo, per arricchirmi e per avere un punto di vista in più. In questi casi si dice, forse con troppa leggerezza, che se n’è andata una brava persona. Un buono. Eppure nel tuo caso davvero faticherei a usare altre parole. Sei stato uno con cui non c’era bisogno di fare chissà quali salti mortali per attirarne l’attenzione e averne l’amicizia. Ricordo una caldissima mattinata estiva e quel viaggio in macchina fino al Santuario della Santissima, a Vallepietra. Mi chiedesti se mi andasse di fare questa “scampagnata” assieme e ovviamente non persi l’occasione di passare quella giornata insieme, ascoltando i racconti sulla tua città, sulla tua Ciociaria, godendoci birra e panino col prosciutto di Erzinio (altra chicca che negli anni ho riutilizzato a dovere!) e parlando – manco a dirlo – lungamente di ultras e movimento. E poi la sosta a Guarcino, sulla strada del ritorno, con i tipici amaretti comprati e divorati sul posto e lo sfottò verso il “romano” che non ne sapeva l’esistenza. Perché poi, chi ti conosceva lo sa bene, l’ironia e il sarcasmo erano alla base di qualsiasi confronto verbale. Eppure, me ne rendo conto ora, quando è troppo tardi, sono sempre pochi e mai sufficienti i momenti passati con le persone che si stimano e di cui si ha una bella immagine.
Mi si è stretto il cuore vedendo che il tuo ultimo post su Facebook è una condivisione di un mio intervento in televisione. Io che sono sempre schivo all’apparire e, peggio ancora, al vantarmene, mi sono sentito onorato. Perché sapevo della stima che avevi nei miei confronti e so quanto abbiamo condiviso determinate idee sullo stadio e sul suo contesto. Mi mancherà la tua classica battuta sulle “rustichelle” portate dai rappresentati Autogrill impegnati nelle sedute dell’Osservatorio. Così come mi mancheranno i tuoi commenti ironici a qualsiasi post riguardante il movimento ultras. Ma mancheranno anche quelle risate che ci siamo fatti coralmente a raduni e incontri, momenti spensierati e sinceramente belli, che forse aspettavo ancor più delle partite per vivere in libertà e divertimento la parola “aggregazione”, nel suo senso più ampio. Sei stato un ponte in grado di unire laddove si voleva dividere e una mente ancorata a quei principi con cui il mondo delle curve è nato e ha scritto pagine memorabili nel nostro Paese. In te ho sempre rivisto quella piazza “ignorante”, spigolosa e pungente che avevo conosciuto da ragazzino, ai tempi della Serie C. Ma dietro a quell’aria apparentemente burbera si celava un cuore nobile, sempre pronto a tendere la mano.
Mi piace pensare che gli Eroi non muoiano. E tu, vecchio Heroes della Stazione, lo sai meglio di tutti. Ringrazio i ragazzi che ci hanno fatto conoscere (che io ritengo Amici, ancora oggi. Al di là di ogni colore, curva e città) e ringrazio te per tutto quello che mi hai dato. So che ti rivedrò in tante sfaccettature allo stadio, ma ti rivedrò anche in svariati momenti della vita di tutti i giorni. Ricorderò una tua frase, una tua battuta e un tuo consiglio. Mi piace ricordarti sorridente e dietro agli striscioni in quel corteo improvvisato il 16 maggio 2015, qualche minuto dopo l’approdo in massima divisione. L’apoteosi per chi ai colori giallazzurri e alla sua città aveva dedicato una vita e buona parte dei propri sentimenti. Nella speranza che allo stadio come nella quotidianità nascano altri Marco Gatto, capaci di trasmettere emozioni e di avere un pensiero pulito, bello e passionale. Sia in curva che nella vita.
Ciao Ultras. Ciao Vecchio Leone. Ciao amico mio!
Simone Meloni