“Trieste, la curva, non l’ha dimenticato, Stefano Furlan ucciso dallo Stato!”.

Uno slogan con cui l’intero movimento ultras triestino si identifica da ormai quarant’anni. E con il quale, grazie all’opera solo e soltanto di sé stesso, è riuscito a tener vivo il ricordo e le pretese di giustizia per un ragazzo ucciso barbaramente. Senza motivo alcuno. La targa apposta sul vecchio stadio Grezar, a pochi passi da quelli che furono gli ingressi al cuore del tifo alabardato, laddove Stefano venne giustiziato, si staglia ancora imponente. Con il suo volto dipinto sul muro e la data a ricordare l’infausto pomeriggio di quel derby con l’Udinese. È vero: Trieste e la curva non l’hanno dimenticato. E facendo così hanno reso possibile che il suo ricordo si tramandasse non solo di generazione in generazione, ma che arrivasse persino fino all’altro capo dello Stivale. Da una città che per tutti risuona sempre come lontana, ma che anche grazie alla tragedia di Stefano Furlan ha costruito un filo indistruttibile con il resto del Paese.

Ed è stato sufficiente un pomeriggio per capirlo. 8 febbraio 1984-8 febbraio 2024. Anni volati, anni in cui solo la perseveranza di un gruppo di ragazzi divenuti adulti poteva non far cadere nell’oblio un’omicidio che per qualcuno era ed è di terza categoria e sarebbe stato ben volentieri archiviato (come, in parte, fatto con il poliziotto colpevole: sospeso dal servizio per “eccesso colposo nell’uso legittimo delle armi”, recluso per un anno e poi tornato regolarmente in servizio fino al raggiungimento della pensione). Un pomeriggio per veder radunati nella Sala Luttazzi del Magazzino 26 (presso il Porto Vecchio) oltre quattrocento rappresentanti di tifoserie provenienti da ogni parte d’Italia a far sentire quanto il nome di Stefano sia rimasto “addosso”. Scolpito nella mente e nel cuore. Un convegno dove sono state consegnate diverse targhe commemorative, prima dell’inaugurazione della mostra “Col tuo nome addosso” che, sempre nel Magazzino 26 (presso la Sala Sbisà), commemorerà questi quattro decenni vissuti nel nome di Stefano. Lo spazio espositivo sarà visitabile gratuitamente giovedì e venerdì dalle 16 alle 20, sabato dalle 10 alle 19 e domenica dalle 10 alle 17 fino al 1 aprile, evidenziando la scelta di tenere a disposizione della cittadinanza (e non solo) tale allestimento per due mesi. Un allestimento curato da Chiara Pellizzari, che ben restituisce la memoria di Stefano, la grande dignità di sua mamma che neanche il dolore ha mai scalfito e l’affetto di tutta la Trieste ultras. Un viaggio che parte da quel maledetto 8 febbraio del 1984 e che riesce a spaziare in tutta la – purtroppo breve – vita di Furlan. Dalle sue passioni, dal riecheggiare delle note di Gloria – canzone su cui il suo mangianastri si è fermato per sempre – ai suoi giornali dell’epoca, fino alla ricostruzione fedele della sua cameretta. Quasi a voler proseguire ciò che la mamma aveva sempre fatto dalla scomparsa del figlio.

Una vera mamma coraggio Renata Furlan, che ha portato dentro di sé un dolore grande fino alla morte, avvenuta il 7 gennaio 2022, trovando, solo parecchi anni dopo il fatto tragico, un appiglio nella ricerca della verità e della luce negli Ultras Trieste. La mostra riporta una sua frase, che colpisce per la chiarezza con cui si dipinge il mondo: “Qualcuno mi ha chiesto un messaggio per le mamme che lasciano andare i figli allo stadio, io invece un messaggio lo invio alle Autorità: nei servizi di ordine pubblico mandino gente che sa quello che fa, non giovani alle prime esperienze che possono perdere la testa”. Esce da questa considerazione un mondo meno filtrato, più libero e ormai dimenticato, fatto di una madre che non vedeva alcuna colpa nell’aver accompagnato il figlio nei settori popolari di uno stadio, dove poi ha iniziato ad andare da solo nelle sue domeniche.

La giornata inaugurale è stata anche l’occasione per ritornare sui fatti accaduti in quella giornata e sugli strascichi lasciati negli anni a seguire. Grazie a una serie di interviste (che andranno in onda il prossimo 13 marzo a Dodicesimo in Campo) alcuni esponenti di spicco del tifo triestino, presenti alla partita, hanno ricordato gli attimi seguenti al pestaggio di Stefano e, soprattutto, come dai media alla Questura si tese immediatamente a minimizzare, cercando in tutti i modi di far passare il ragazzo come un soggetto violento e “disagiato”, mentre invece lavorava saltuariamente in una fiorirai per aiutare mamma Renata e faceva volontariato prestando assistenza ai disabili in una struttura religiosa. Una strategia che, purtroppo, ritroviamo ancora oggi in tanti casi analoghi, dove famiglie e amici hanno dovuto faticare oltremodo per ottenere almeno un pezzetto di giustizia. Vengono in mente la storia di Gabriele Sandri, la cui “fortuna” è stata quella di avere alle spalle una famiglia accorta e battagliera. Come nel caso di Stefano Cucchi o in quello di Federico Aldrovandi. Tutte situazioni dove la longa manus statale ha provato sin da subito a rigirare completamente i fatti, tentando di utilizzare taluni stereotipi pompati quotidianamente presso la società per insabbiare le proprie negligenze. Ci sono poi tantissimi casi – alcuni sicuramente neanche li conosciamo – dove neanche quel briciolo di “giustizia” si è riuscito a ottenere. E dove le vittime sono incredibilmente divenute carnefici. È anche e soprattutto per questi che bisogna soffiare sulla fiamma del ricordo e dell’indignazione allorquando si configuri una qualsiasi morte “sospetta” o ci siano anche “solo” abusi e violenze barbare da parte delle divise.

Siamo lontani anni luce dal poterci permettere di abbassare la guardia o credere semplicemente in un trattamento normale e “democratico” per quanto riguarda il rapporto tra forze dell’ordine e cittadini, soprattutto in alcuni aspetti del vivere comune. I recenti fatti di Pisa non sono che la punto dell’iceberg di un modus operandi consolidato nei decenni, che solo oggi a volte affiora in superficie grazie ai social e alla comunicazione frenetica. Eppure assistiamo regolarmente a prese di posizione, da parte di politici su tutto l’arco costituzionale, in difesa di lapalissiani abusi e comportamenti ai limiti dell’umanità ma anche solo del normale svolgimento del proprio mestiere. Dunque la storia di Stefano Furlan differisce, con poche altre, proprio per esser rimasta sempre negli occhi e nella mente quantomeno dei tifosi italiani. E questo grazie all’opera di tramandamento della memoria, cosa fondamentale per difendere ogni minimo diritto. Cosa che spesso noi italiani, sopraffatti dal senso di sudditanza nei confronti delle istituzioni, dimentichiamo colpevolmente.

Come detto ci sarà tempo fino a Pasqua per visitare la mostra “Con il tuo nome addosso”. E sarà importante farlo e legittimare ancor più il lavoro svolto da tutti. Come movimento ultras quella di Stefano Furlan è stata una faccenda in grado di unire e creare solidarietà anche tra piazze lontanissime, sia da un punto di vista geografico che ideologico. La sua grandezza sta proprio in questo. Un movimento di aggregazione giovanile che, nel bene e nel male, è riuscito a varcare i cinquant’anni di vita e che oggi, pur in tutte le sue difficoltà, appare ancora in discreta salute. E che come obbligo ha quello di far sì che non ci siano più giornate come quelle dell’8 febbraio 1984. E non ci sia più un lutto profondo e pesante come quello del 1 marzo dello stesso anno, quando Stefano chiuse definitivamente gli occhi dopo un lenta e terribile agonia. Oggi vive negli occhi delle tante generazioni presenti al convegno, così come negli striscioni dei tanti gruppi che hanno dimostrato solidarietà. Ma soprattutto vive in ogni atto di repressione, in ogni manganellata data gratuitamente e in ogni abuso verso chi già ha perso la propria libertà o verso chi – per qualsiasi causa – vive inerme e sopraffatto dalla società. È quella parte di Italia a non averli dimenticato che ancora strilla e scalpita per difendere le proprie vittime ed essere ultras sette giorni su sette: una frase forse scontata e inflazionata, che tuttavia oggi più che mai risuona come un dovere, quantomeno per restare fuori dal circuito dell’indifferenza e del silente prestare il fianco a storie sporche di sangue, ricoperte sapientemente da fango e sabbia.

Ieri, oggi, domani: Stefano vive!

Simone Meloni

A.Z.