Quella fra Foggia e Cerignola è una di quelle partite che potrebbero essere prese a testimonial di quanto unico, bello, per qualcuno crudele ma sicuramente ineguagliabile possa essere questo che non è solo un gioco. L’hanno detto già benissimo in tanti, a partire da Bill Shankly leggendario allenatore del Liverpool o in chiave più pop, Nick Hornby in “Febbre a 90°” quando, attorno all’altalena di emozioni che si susseguono intorno ad una palla che rotola, formulò l’iconica frase “Non supereremo mai questa fase”. In tutto ciò, nemmeno a dirlo, moltissimo è dato dall’ambiente che i tifosi concorrono a creare. Checché ne dicano di loro i detrattori di professione, che poi alla faccia della coerenza, usano le immagini delle coreografie per i loro programmi o per vendere i loro prodotti in genere. Ma è così da sempre, come da qualche giorno in Emilia Romagna dove gli ultras impegnati a dare una mano dopo l’alluvione sono diventati “angeli del fango” poi saranno invece destinatari della loro macchina del fango alla prima iniziativa fuori dalle righe.

Ma diamo un po’ di contesto: questo ritorno degli ottavi di finale dei playoff di Serie C era iniziato con tutte le premesse dell’impresa impossibile. Al “Monterisi” infatti la matricola Cerignola aveva schiacciato il più blasonato Foggia con un pesante 4 a 1, con tanto di contestazione ai rossoneri al loro ritorno in città. Perché ai tifosi la trasferta era vietata, esattamente come per i cerignolani in questa seconda gara. Il solito sfilarsi dalla gestione dell’ordine pubblico da parte di chi dovrebbe garantirlo.

Ci credevano forse poco i calciatori e probabilmente non più di tanto neppure i tifosi che però, per attitudine e per atto di fede, non concepivano a priori nessun altro approccio se non quello di lottare fino alla fine, di uscirne con la maglia sudata o con le ugole arrossate per chi è sugli spalti, con la consapevolezza conseguente dunque, di aver dato tutto quello che si poteva dare. Solo questo mitiga la delusione e rende più onorevole una sconfitta, solo questo rende plausibile magari anche sperare nei miracoli.

E questo è quel che è successo allo “Zaccheria” dove la partita sembrava ormai destinata all’inevitabile e il goal al 79esimo del Foggia non aveva altro che la parvenza della magra consolazione, così come il forcing finale pareva la routine del solito finale amaro. Poi l’imponderabile, l’assurdo, in termini di bellezza o terrore a seconda delle prospettive di chi guardava: prima al 94esimo e poi al 97esimo infatti, i rossoneri trovano due reti in rapida successione che significano qualificazione.

Le sensazioni, le esultanze forsennate con tutta la voce e tutto il corpo, la gioia e il resto che si può solo provare ad immaginare. Così come, chi di dovere, dovrebbe provare a fare un pari gioco di immaginazione e ripensare a tutto ciò senza l’urlo liberatorio del pubblico, senza il coinvolgimento emotivo, senza l’osmosi fra attori in campo e in curva. Una stessa impresa, una stessa gioia dei giocatori in campo condivisa con uno stadio vuoto, con dei freddi ed asettici gradoni di cemento come capitava per esempio in tempi di pandemia. A rendere unico il calcio sono i suoi tifosi. E anche in momenti di somma festa come questi, la richiesta ai vertici politici e calcistici è una sola: basta con questi divieti. Come chi va in campo, come chi va in curva: fate il vostro fino in fondo.

Foto di Pier Paolo Sacco