Quando dalla Tribuna Tevere si leva al cielo il fumo denso a tinte giallorosse, la testa di molti – tra appassionati di fototifo e tifosi ormai ultraquarantenni – va a un’altra semifinale. Quella della Coppa UEFA 1990/1991, contro il Brøndby. Una delle serate più iconiche della storia romanista, suggellata dall’incredibile boato con cui, all’87’, l’Olimpico festeggiò il 2-1 di Voeller, che spinse i suoi nella finale – poi persa – contro l’Inter. I fumogeni accesi in quel 24 aprile di trentatré anni fa furono innumerevoli tra curva e tribuna e riuscirono a produrre un effetto maestoso. Come solo la pirotecnica sa fare. Inizialmente neanche ci presto troppa attenzione, credendo si tratti delle “solite” accensioni qua e là, salvo poi notare la sincronia con cui lentamente vanno a coprire l’intero settore. Non me ne voglia nessuno, nemmeno i ragazzi che contemporaneamente hanno organizzato ed esposto la scenografia in Sud. Ma torce e fumogeni hanno sempre un fascino particolare. Il fascino del proibito a prescindere. Ma anche quello del folklore selvaggio e primordiale con cui le prime generazioni curvaiole cominciarono a occupare i settori popolari e stravolgere il modo, sul finire degli anni sessanta, di andare allo stadio. Inoltre, oggi, riuscire a produrre simili performance negli stadi di Serie A non è affatto facile e comporta rischi tangibili, che nella loro massima espressione possono tramutarsi in Daspo, denunce penali e sanzioni salatissime.

Si gioca Roma-Bayer Leverkusen e quasi per tutti la mente torna alla medesima semifinale di un anno fa. Ricordi dolci, di una sfida che grazie al gol di Bove portò i giallorossi alla finale di Budapest. Ricordo che qualcuno utilizza come amuleto, mentre altri – i più realisti – sanno che quest’anno ci sarà ancor più da vender cara la pelle contro una squadra imbattuta proprio da quella sfida dell’Olimpico e fresca campione di Germania per la prima volta. Una corazzata, che ovviamente punta dritto all’Europa League per chiudere alla perfezione il proprio anno di grazia. L’ultimo ostacolo è, per l’appunto, la Roma. Una Roma che col suo popolo vive questa competizione come il sogno da realizzare, il fantasma da scacciare una volta per tutte, l’obiettivo visto sfuggire a pochi centimetri dal traguardo per ben due volte. Occasioni che hanno solo reso ancor più sanguinosa la sconfitta in Coppa dei Campioni del 1984, contro il Liverpool. Il rapporto tra l’Europa e i romanisti, in fondo, lo possono capire e “giustificare” solo questi ultimi. Un amore che diventa odio e delusione in breve tempo e che forgia generazioni in nome di batoste e lacrime, che tuttavia rafforzano la fede. Forse non ci sarà più quella fede ancestrale degli anni ottanta e novanta, quell’aura di magia data dall’avere quasi solo il calcio e la propria appartenenza, al di fuori della routine quotidiana. Una fede che per intere generazioni ha rappresentato anche il modo di metter da parte, magari per soli novanta minuti, le amarezze della vita. No, magari quella sensazione di vuoto al di là della Roma non ci può più essere per meri fattori sociali, eppure anche nei ragazzi alle prime partite, anche nei loro occhi, c’è la purezza di chi riconosce nella vita da stadio ancora un collante tribale, quasi “sovrannaturale”.

Quando le due squadre fanno capolino dagli spogliatoi dalla curva si compone la coreografia, che con diversi cartoncini va a formare la scritta Avanziamo. Il resto dello stadio si colora con le sciarpe sulle note di “Roma, Roma, Roma”, mentre anche in Nord vengono accesi diversi fumogeni, col muretto lato settore ospiti protagonista indiscusso. Voglio sottolineare come aver disseminato contingenti più o meno corposi ma con chiaro stampo ultras in tre settori su quattro dello stadio, sta producendo un effetto davvero notevole, stimolando anche il pubblico notoriamente più tranquillo a scuotersi, rumoreggiare e partecipare al tifo. Ognuno con le sue peculiarità, ognuno col suo modo di essere e ognuno con le sue ragioni nell’occupare il proprio posto, ma tutti con il fine ultimo di farsi sentire e soffiare sul pallone a supporto del sodalizio capitolino.

Nel settore ospiti, di contro, prendono posto circa 1.500 tifosi del Leverkusen, inspiegabilmente un po’ meno dello scorso anno. Su di loro confermo il giudizio dato nelle precedenti occasioni: è innegabile che negli ultimi quindici anni siano cresciuti davvero molto, divenendo una buona realtà in termini di tifo, forse ancora sottovalutata e vista con pregiudizio come “Cenerentola” nel movimento ultras teutonico. L’unica cosa che mi viene davvero da contestargli è la troppa “educazione” evidenziata ogni qual volta li ho visti all’opera. Poca – se non zero – aggressività e voglia di infastidire il pubblico avversario. Anche se nel corso della partita si udiranno un paio di cori contro la Roma. Da segnalare, tra le loro fila, la presenza dei ragazzi di Offenbach.

L’ambiente di questa sera sarà molto legato all’andamento del risultato, ma stavolta davvero non me la sento di gettare la croce addosso a qualcuno. Troppo importante la posta in palio, troppo grande la delusione che si consuma dopo l’errore con cui Karsdorp permette ai tedeschi di passare in vantaggio, indirizzando giocoforza il match contro un’avversaria già di suo più forte. La Curva prova a scuotersi e scuotere l’ambiente. A tratti ci riesce, nel tentativo di infondere forza e sicurezza a una Roma che stasera sarà un mix tra sfortuna, stanchezza ed errori collettivi. Nella ripresa i tedeschi trovano lo 0-2 con un gol da antologia di Andrich. Una rete che rende davvero difficile il ritorno alla BayArena e che permette alle aspirine di vedere vicina la finale di Dublino. Ovviamente il pubblico giallorosso non si limita a guardare la prestazione dei dirimpettai, ma tira fuori l’orgoglio e sfodera una sciarpata sull’inno, che viene cantato praticamente da tutto lo stadio. È l’orgoglio di chi sa che, con tutta probabilità, il sogno sta nuovamente svanendo, ma la passione e la fede no. Quelle rimarranno incrollabili, malgrado tutto. E pervadono cuore e anima esattamente come il fumo della Tevere ha inizialmente pervaso i polmoni di tutti i presenti. Un fumo che ha lasciato l’odore su giacche e maglie e che porta con sé il senso di appartenenza di chi è già pronto a partire per Leverkusen, ancor più convinto di prima. Perché, di fondo, non va mai dimenticato che il tifoso, l’ultras, si vede in queste circostanze. Quando assume le sembianze selvagge e libere di un fumogeno e della sua libertà nell’essere.

Simone Meloni